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domenica 11 maggio 2008

Le malattie "orfane" ed il ruolo della spesa pubblica

Tra le molte patologie che affliggono l’uomo, ve ne sono alcune che la comunità scientifica qualifica come “orfane”. La ragione di una simile denominazione è da ricercarsi nel numero limitato dei pazienti che ne sono colpiti, ma anche nell’insufficiente reddito a disposizione di coloro che le contraggono. Sono “orfane” perché interessano, principalmente, le aree più povere del pianeta, dove le condizioni di vita sono indubbiamente più estreme e la miseria endemica. Sono “orfane” perché la logica stringente dell’azionista investitore, che “rischia” i propri quattrini in borsa, impone una scelta oculata dei progetti ricerca, che assicuri la minimizzazione dei tempi di rientro dall’investimento iniziale e la contestuale massimizzazione dei rendimenti. Sono “orfane” perché, sulla scia delle precedenti considerazioni, non giustificano alcuna attività di ricerca scientifica da parte privata, che sia mirata e davvero approfondita.

Lo sviluppo di un nuovo rimedio terapico è un processo che necessita di tempi prolungati di ricerca e sperimentazione clinica e che richiede investimenti finanziari ingenti. Proprio a causa dei traguardi aleatori a cui può spesso giungere, ma anche degli allettanti guadagni che ne possono scaturire, la ricerca medica è, già da tempo, abbinata a sofisticate tecniche di simulazione e selezione finanziaria. Un progetto di ricerca medica sarà considerato valido se il business plan, che lo rappresenta, permette anche di individuare un saldo finanziario netto positivo, tra ciò che risulta necessario investire all’inizio e ciò che, ragionevolmente, potrà ricavarsi dal futuro sfruttamento commerciale del rimedio terapico. Il giudizio finale di fattibilità sarà ovviamente orientato a privilegiare una prospettiva di rischio prudente, volta a salvaguardare la ricchezza attualmente disponibile per l’investitore e a stimolarne, comunque, l’impiego alternativo efficiente. Quindi, se un’ipotesi di ricerca non sarà in grado di dimostrare, a chi possiede il capitale, risultati finanziari allettanti, il progetto sarà “opportunamente” scartato e con esso il rimedio terapico sottostante. L’ovvio corollario di questa morale è che un numero considerevole di individui rimarranno abbandonati alla loro sorte o, nella migliore delle ipotesi, a cure del tutto inadatte, a meno che il male da cui sono afflitti, nel frattempo, non si sia diffuso presso altri soggetti a reddito più elevato. Un esempio eclatante di tale eventualità può ricavarsi dall’epica lotta contro la poliomielite, che per anni coinvolse l’intero mondo occidentale. Un traguardo davvero leggendario nella storia della medicina, probabilmente secondo, in ordine di importanza, alla sola scoperta degli antibiotici. La poliomielite è stata sconfitta ed è pressoché scomparsa in tutto il mondo, grazie allo sforzo congiunto di ricerca privata e pubblica che venne a suo tempo profuso e all’impegno diretto delle più importanti istituzioni ed Università internazionali. Ma venne sconfitta anche perché la poliomielite colpì, con un picco negli anni cinquanta, diverse migliaia di bambini americani, incluso, negli anni trenta, Franklin Delano Roosvelt, futuro Presidente degli Stati Uniti d’America.

Certo, prendere coscienza di tali meccanismi ci può rendere inquieti, anche perché la sensibilità tipicamente “occidentale” ed europea di cui, più o meno tutti, siamo permeati, non ci consente di ammettere che, alla fine, un sano e robusto rendimento finanziario possa valere più di una vita umana. Forse è anche per questa ragione che, quando siamo invitati a riflettere intorno a tali aberrazioni, ci precipitiamo a digitare i numeri telefonici della solidarietà o a versare somme su bollettini postali pre-intestati, quasi volessimo lavare la nostra coscienza. È anche vero, però, che la nostra indignazione è sempre più pilotata e che sopravanza solo quando assistiamo alla scena televisiva di un moribondo o raccogliamo l’accorato appello di un presentatore televisivo, che tra lustrini e paillette, ci commuove e ci spinge (quasi sempre, senza dare l’esempio) a gesti di una carità sempre più istintiva. Quasi mai il nostro atteggiamento ci spinge verso una riflessione critica più profonda, intorno al fatto che il palliativo morale della beneficenza “a comando” serve, piuttosto, a surrogare o a colmare il vuoto di spesa pubblica che si è creato nel nostro sistema di ricerca scientifica, anche in campo medico-sanitario.

La spesa pubblica è un traguardo di civiltà straordinario, che qualifica gli Stati e le collettività che ne costituiscono il fondamento giuridico-istituzionale. È il principale risultato di un processo politico, che antepone gli interessi dei cittadini alle logiche e alla razionalità privata. È uno strumento di equità che può contribuire a risolvere le ingiustizie del mercato, laddove il privato non ravviserà mai alcun interesse ad investire. La spesa pubblica attribuisce un significato pratico alla parola “collettività”: è il prerequisito fondante e qualificante di ogni ragionamento politico che sia volto a garantire i valori universali dell’uguaglianza e della liberta. Negli ultimi anni, la funzione sociale della nostra spesa pubblica, specie in campo sanitario, è stata mortificata dai continui scandali e dalla corruzione clientelare, perpetrata, in modo sistematico e a danno di noi tutti, da burocrati mediocri, da falsi imprenditori e da politici indegni. Posti di fronte a tale spettacolo, noi cittadini abbiamo in stragrande maggioranza avallato lo smantellamento dello Stato sociale e del nostro sistema di ricerca pubblica, in questo rassicurati: dalla prospettiva efficientista delle privatizzazioni; da una presunzione di discontinuità politica, scaturente da un proliferare di partiti, affatto corrispondente ad un serio ricambio delle classi dirigenti; dalle vane promesse di un liberismo economico, portatore di un benessere diffuso. Da questi convulsi processi di “rinnovamento” non abbiamo ricavato altro che ulteriore sperpero di denaro pubblico e la perdita di competitività internazionale, in settori della ricerca scientifica nei quali il nostro Paese primeggiava.

Pertanto, fintanto che non saremo capaci di restituire forza e dignità al nostro sistema sociale di spesa pubblica e di pretendere dai nostri politici risposte e programmi non estemporanei di investimento collettivo, per l’uguaglianza e per la libertà di ogni individuo, le patologie di abbiamo discusso in premessa continueranno ad essere denominate “orfane”, questa volta anche per causa nostra.