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martedì 23 marzo 2010

Riflessioni sulla democrazia dopo tangentopoli

Lo scandalo denominato Tangentopoli e il lungo processo che ne derivò, come molti ricorderanno, scaturirono in modo casuale da una vicenda di innocenti mazzette, orchestrate in modo grossolano da un modesto figuro del sottobosco milanese, tale Mario Chiesa, a quel tempo Direttore del Pio Albergo Trivulzio. Un personaggio, questo Mario Chiesa (dagli amici amabilmente chiamato Mariotto), recentemente balzato agli onori della cronaca per via di un suo ennesimo giro di tangenti, a conferma di quanto sia ancora valida la morale della saggezza antica: il lupo perde il pelo ma non il vizio.

Nell’immaginario collettivo, Tangentopoli divenne famosa perché con essa sembrò terminare il malcostume di una certa politica cialtronesca, di sola facciata e di puro compromesso, fondata sul perseguimento di torbidi interessi personali, a vantaggio di una ristrettissima elite di potentissimi uomini di partito (chi non ricorda il C.A.F., acronimo di: Craxi, Andreotti, Forlani), di burocrati di apparato e di imprenditori spregiudicati e foraggiatori del sistema. Grazie a Tangentopoli, dissero i giornalisti, tramontava definitivamente la cosiddetta prima repubblica e, in luogo di essa, prendeva vita e spazio un’Italia nuova di zecca, fatta di una classe dirigente nuova, di nuovi partiti e di una coscienza civile radicata e diffusa, finalmente orientata al rispetto delle regole e ai giudizi di merito, alla pretesa di moralità nell’azione politica e amministrativa.

Sparirono dalla scena politica i partiti storici del dopoguerra, dalla Democrazia Cristiana allo stesso Partito Socialista Italiano. Il neonato P.D.S., nato per necessità storica dopo la caduta del blocco sovietico e la conseguente svolta della bolognina, non avendo più antagonisti di alcun genere, si ritrovò fortemente sbandato e in balia di se stesso, sempre più avvitato in discorsi retorici imbarazzanti, che da un lato intendevano smarcare il nuovo partito e a farfugliare una certa distinzione affrancatrice tra la tradizione comunista italiana e quella sovietica, dall’altro intendevano rassicurare l’opinione pubblica sul fatto che il P.D.S. sarebbe stata l’alternativa giusta per l’Italia, anche perché miracolosamente scampato dalla catastrofe giudiziaria. Non fu così. La gente non abboccò e al P.C.I./P.D.S./D.S. (sequenza di sigle confusionaria per dei surrogati confusi) rimasero la sola retorica, l’inconcludenza assoluta e l’autoreferenzialità della propria oligarchia, gravami ancora piuttosto evidenti nel neonato PD.

A valle di quest’articolato processo e di fronte alla condizione attuale della politica italiana, non mi sento di dire che Tangentopoli corrispose a una vittoria della nostra democrazia. Tangentopoli fu la vittoria di un’Istituzione dello Stato, la Magistratura, su un'altra istituzione: il Parlamento della Repubblica. La Magistratura, è innegabile, svolse la propria funzione, l’esercizio dell’azione penale, ma lo fece con modi ed efficienza sino a quel momento sconosciute e, vorrei aggiungere, ancora distanti dall’esperienza quotidiana di un comune cittadino. Chi ha avuto a che fare con la Giustizia, sa bene quanta burocrazia, lungaggini, inciuci tra notabili avvocati e tempi morti occorrono per arrivare a una sentenza che, il più delle volte, non soddisfa mai nessuno, proprio a causa dei tempi biblici che servono per arrivarci. Da questo punto di vista, Tangentopoli è stata più un feroce regolamento di conti tra apparati dello Stato, che una rinascita democratica. Di fronte alla latitanza dell’elettorato, la Magistratura ha deciso di fare il proprio corso, come una valanga, che quando si mette in moto non conosce ostacoli e scivola a valle con furia. E poi, a parte Sergio Cusani e qualche altro faccendiere, chi è che ha veramente pagato per le proprie colpe nei riguardi dello Stato? Bettino Craxi? Arnaldo Forlani? Cirino Pomicino? Al primo dedicheranno presto strade e piazze. Agli altri... sono tranquilli e sereni a condurre i loro affari e dai più vengono pure rimpianti. Direbbe Shakespeare: molto rumore per nulla.

In una democrazia matura, il cambiamento interviene sempre e soltanto per opera della sovranità popolare. Da parte del corpo elettorale, dopo le vicende di Tangentopoli, non è mai avvenuto alcun sovvertimento sostanziale della classe politica italiana. Ai partiti storici e ai nomi altisonanti del tempo si sono sostituiti altri, scelti tra le seconde linee, i faccendieri e gli zelanti portaborse dei vecchi baroni (il novello campione della rinascita vetero- democristiana, alternativa al bipolarismo e di chiaro stampo cerchiobottista, è Pierferdinando Casini, storico portaborse di Arnaldo Forlani). Il popolo è rimasto alla finestra a guardare, ed è ancora fermo sugli spalti, a parteggiare con accaloramento a favore dei giudici e a sostenere nel frattempo, con evidente contraddizione e malafede, il vecchio modo di intendere e di fare la politica. Il popolo continua a partecipare solo, nel momento e laddove ne ricava un vantaggio.

Tangentopoli ci ha restituito un Paese di fatto spaccato in due e quotidianamente dilaniato dalla rissosità dei due contendenti istituzionali. Fintanto che non capiremo che la democrazia siamo noi, ciascuno di noi, con la qualità del nostro impegno, della nostra partecipazione e del modo responsabile con cui operiamo le nostre scelte, la rissa andrà avanti e il Paese inesorabilmente alla deriva. La qualità democratica di un Paese non si giudica dalla corposità e severità dei suoi sistemi, giudiziario e sanzionatorio, ma dal modo in cui la comunità e i suoi rappresentanti interpretano, si conformano e rispettano le leggi che essi stessi si sono date.

Qualunquismo e astensionismo: la Democrazia è un pericolo

È evidente a chiunque che in Italia sta avendo luogo un gravissimo distacco tra il sistema dei partiti, “lievito madre” della democrazia rappresentativa, e i cittadini, ragion d’essere dell’Italia in quanto nazione. La rissosità inconcludente tra gli schieramenti e la sistematicità con cui si susseguono scandali, inchieste della magistratura e conseguenti arresti, sono elementi alla base della disaffezione dei cittadini riguardo al fare politica, e costituiscono il palese presupposto di due fenomeni dilaganti: il qualunquismo; l’astensionismo. Il primo, crescente soprattutto tra i giovani, sempre più disillusi, disincantati, frustrati nelle loro aspirazioni di crescita e affermazione, nichilisti e distanti dall’idea che possa esistere, oltre il ristretto confine percettivo- morale che li identifica, una res publica di ordine superiore: un’entità collettiva, dalla quale possano ricevere e verso la quale orientare traguardi, scelte, il proprio appassionato contributo di partecipazione e di testimonianza. Il secondo, invece, è in aumento soprattutto tra coloro che negli anni passati o anche più recentemente, hanno voluto sentirsi parte attiva della politica, partecipando alla vita dei partiti, sostenendoli dall’esterno e dall’interno, tesserandosi, contribuendo al loro consolidamento, affezionandosi ai loro leader e ai loro programmi di rinnovamento ideologico. Per ciascuno dei due gruppi sociali, seppure con gradi di consapevolezza e modalità ben diverse, sembra sia stata frustrata l’idea fondo, quella di essere parte integrante di un progetto più grande: l’Italia. La rassegnazione, circa l’immodificabilità e irredimibilità del sistema, è diventata fattor comune tra qualunquisti e astensionisti. I primi, in modo particolare, riducono la questione affermando che tanto, in politica, sono tutti uguali, che senso avrebbe, quindi, informarsi o impegnarsi per qualcosa o qualcuno. Se si decide di andare a votare e il meteo non suggerisce altre scelte, ben più goderecce, si sceglie il candidato più simpatico, quello che è stato suggerito dall’amico o che va di moda, sulla base delle voci di strada. I secondi tendono, invece, a discutere tra loro, per piangersi addosso e rimpiangere, posti di fronte all’inquietante interrogativo di sempre, quanto meno a sinistra: che fare?. Il risultato è, alla fine, identico: la non partecipazione, patologia grave della nostra democrazia rappresentativa, che rischia per questo malessere endemico di tramontare definitivamente. Il vero pericolo per la democrazia, infatti, non risiede tanto nella spinta anarchica del megalomane per eccellenza, a tutti ben noto, ma nei cittadini che non partecipano alla vita pubblica, che non vivono, non testimoniano e non alimentano, con la loro fattiva partecipazione, la Democrazia.

Il problema, quindi, è come fare a recuperare i cittadini e i giovani, soprattutto, alla politica e alla partecipazione democratica. Io credo che la soluzione sia da sperimentarsi nel favorire la costituzione di movimenti locali, che incoraggino l’avvicinamento dei cittadini alla vita e alle scelte della comunità in cui risiedono. I grandi “partiti apparato”, quelli che per fare opinione abbisognano sempre più di presenza negli spettacoli televisivi e di un esasperato cicaleccio pseudo- giornalistico, sono dal mio modesto punto di vista arrivati al capolinea della storia. Quello che può riavvicinare la gente comune alla politica è il loro coinvolgimento fattivo nelle faccende dell’ambito territoriale in cui vivono. Tali questioni sono almeno comprensibili, a livello locale, e vi è in più la possibilità di tracciare, con maggiore consapevolezza e precisione, il quadro delle responsabilità specifiche, inerenti agli insuccessi o ai meriti di una determinata azione politica. La democrazia è in pericolo perché si è andata smarrendo la possibilità di sperimentarla concretamente da parte di ciascuno di noi. La graduale burocratizzazione dei rapporti sociali, la diffusa e pervasiva presenza dei partiti nella vita pubblica e l’alienazione della gente comune rispetto alle istituzioni e allo Stato, sempre più distanti da ciò che il cittadino sperimenta quotidianamente nella propria comunità locale, rischiano di diventare la premessa per uno sbocco drammaticamente possibile: il dogmatismo del pensiero unico dominante. Torniamo a vivere la politica nella comunità cui partecipiamo. Torniamo a viverla con la coscienza di essere non soltanto cittadini vessati e incompresi, ma con la voglia di esprimere la nostra opinione, con forza e determinazione. Aggreghiamoci e rendiamoci promotori di nuovi soggetti politici locali, che diano chiare risposte e indicazioni serie, rigorose e severe all’autoreferenzialità delle ristrette oligarchie imperanti nei partiti nazionali. Buona comunità a tutti!