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lunedì 15 ottobre 2018

Lettera a Mattarella

Gentile Presidente Mi permetto di scriverLe perché Lei ha il compito di vigilare sul rispetto della Costituzione e perché avverto con preoccupazione lo svuotamento progressivo dei Nostri valori fondanti. Comprendo la Sua difficoltà nell’affrontare l’attuale momento e la gravosità del Suo ruolo dall’intensità crescente degli attacchi rivolti a Lei e alle Istituzioni da Lei garantite attraverso l’esercizio del Suo mandato. C’è un clima di barbarie crescente nel nostro Paese, che non può essere ignorato e al quale io e la mia generazione non eravamo mai stati abituati; un clima sostenuto da letture semplificate della realtà, da sistematiche dietrologie e da continue provocazioni da parte di chi ostenta, con sorprendente orgoglio ed evidente fame di legittimazione agli occhi del proprio leader, il superamento di ogni limite di solidarietà umana, calpestando i nobilissimi contenuti dell’articolo 3 della Nostra Costituzione, nel nome di una sovranità, di una italianità divisiva, nella quale stento sempre più a riconoscermi; un clima alimentato dall’arditezza lessicale, strumentale al fine di comunicare la certezza delle cause e i percorsi di soluzione più immediati. Gli immigrati, senza che siano risparmiati donne e bambini in questo odioso esercizio, e quanti non rientrano a pieno titolo in un mai chiarito "idealtipo" di italiano, vengono da più parti indicati come la causa efficace ed efficiente di ogni Nostro guasto, tanto nella società, quanto nell’economia, e ogni possibile evidenza giornalistica, anche la più risibile, viene a tale scopo esagerata e manipolata affinché ritorni utile agli obiettivi di seminare il risentimento con maggiore vigore e di diffondere l’implicita convinzione che i caratteri antropologici di un’intera categoria sociale siano irredimibili e dipendenti dai peculiari caratteri razziali. Analogamente, con pari enfasi di semplificazione, spregiudicatezza e assoluta mancanza di garbo e forma, alle Istituzioni non elettive e\o a quelle Sovranazionali, Enti con cui l’Italia non ha solo stipulato trattati e accordi, ma ai quali ha addirittura dato vita nella veste di Costituente, si assegnano le colpe del dissesto finanziario Pubblico e anche delle ultime gravissime tragedie, come se Accordi e Trattati non avessero più efficacia, ma fossero, invece, il retaggio di un’epoca in cui l’Italia era succube di non meglio specificati “poteri forti”, anche per l’insipienza colpevole e servile dei Nostri precedenti governanti. In passato, questa trama non l’ho vissuta, ma dalla testimonianza dei miei genitori e dalla Storia ho già compreso il possibile epilogo. So già dove tutto questo potrà condurci e a quale salatissimo prezzo. Chi oggi crede che nell’asprezza dei toni dialettici e nella risolutezza dell’azione risiedano l’essenza del cambiamento e della rivoluzione, dimostra non soltanto incoscienza, ma anche autentica e profonda irresponsabilità. All’indomani della vergognosa parentesi fascista, affermatasi e consolidatasi grazie al più becero populismo e sulle solide fondamenta di un analfabetismo civico diffuso, con lungimiranza i Padri Costituenti introdussero la ripartizione equilibrata dei poteri tra le Istituzioni e lo strumento parlamentare bicamerale perfetto, per garantire la continuità e la libertà democratica in Italia. All’interno di questo schema, con pari saggezza e per evitare che si potesse ripresentare il pericolo di una nuova deriva populista, gli stessi Padri assegnarono ai partiti il compito di attuare il principio della rappresentanza popolare, per favorire e sviluppare la mediazione dialettica tra Popolo e Istituzioni: il Nostro Popolo è sovrano, ma l’esercizio concreto della sovranità è assicurato dalla mediazione dei partiti, i quali garantiscono la sintesi dei molti e, spesso, contrapposti interessi attraverso la dialettica parlamentare e sotto il controllo costante degli altri Organi Costituzionali. Non credo nella democrazia diretta e non credo affatto nel cambiamento fondato sull’ascolto della “pancia” del Popolo e\o sul riscontro ossessivo dei sondaggi. La Politica è ascolto paziente di ogni legittima istanza, luogo di mediazione e sintesi, costruzione di una visione di benessere condiviso e sostenibile a favore di tutti, nel rispetto delle differenti chiavi di lettura e degli irrinunciabili principi di uguaglianza davanti alla Legge, nell’assenza di ogni forma di discriminazione, affinché sia rimosso ogni ostacolo alle condizioni che limitano la libertà di opinione e di affermazione dell’individuo. In questo esercizio la Politica conferisce al Popolo un senso autenticamente nobile ed è su questo principio che, dunque, con molta umiltà e profonda gratitudine, io mi permetto di chiederLe di vigilare e di intervenire perché si corregga in tempo la rotta.

martedì 23 marzo 2010

Riflessioni sulla democrazia dopo tangentopoli

Lo scandalo denominato Tangentopoli e il lungo processo che ne derivò, come molti ricorderanno, scaturirono in modo casuale da una vicenda di innocenti mazzette, orchestrate in modo grossolano da un modesto figuro del sottobosco milanese, tale Mario Chiesa, a quel tempo Direttore del Pio Albergo Trivulzio. Un personaggio, questo Mario Chiesa (dagli amici amabilmente chiamato Mariotto), recentemente balzato agli onori della cronaca per via di un suo ennesimo giro di tangenti, a conferma di quanto sia ancora valida la morale della saggezza antica: il lupo perde il pelo ma non il vizio.

Nell’immaginario collettivo, Tangentopoli divenne famosa perché con essa sembrò terminare il malcostume di una certa politica cialtronesca, di sola facciata e di puro compromesso, fondata sul perseguimento di torbidi interessi personali, a vantaggio di una ristrettissima elite di potentissimi uomini di partito (chi non ricorda il C.A.F., acronimo di: Craxi, Andreotti, Forlani), di burocrati di apparato e di imprenditori spregiudicati e foraggiatori del sistema. Grazie a Tangentopoli, dissero i giornalisti, tramontava definitivamente la cosiddetta prima repubblica e, in luogo di essa, prendeva vita e spazio un’Italia nuova di zecca, fatta di una classe dirigente nuova, di nuovi partiti e di una coscienza civile radicata e diffusa, finalmente orientata al rispetto delle regole e ai giudizi di merito, alla pretesa di moralità nell’azione politica e amministrativa.

Sparirono dalla scena politica i partiti storici del dopoguerra, dalla Democrazia Cristiana allo stesso Partito Socialista Italiano. Il neonato P.D.S., nato per necessità storica dopo la caduta del blocco sovietico e la conseguente svolta della bolognina, non avendo più antagonisti di alcun genere, si ritrovò fortemente sbandato e in balia di se stesso, sempre più avvitato in discorsi retorici imbarazzanti, che da un lato intendevano smarcare il nuovo partito e a farfugliare una certa distinzione affrancatrice tra la tradizione comunista italiana e quella sovietica, dall’altro intendevano rassicurare l’opinione pubblica sul fatto che il P.D.S. sarebbe stata l’alternativa giusta per l’Italia, anche perché miracolosamente scampato dalla catastrofe giudiziaria. Non fu così. La gente non abboccò e al P.C.I./P.D.S./D.S. (sequenza di sigle confusionaria per dei surrogati confusi) rimasero la sola retorica, l’inconcludenza assoluta e l’autoreferenzialità della propria oligarchia, gravami ancora piuttosto evidenti nel neonato PD.

A valle di quest’articolato processo e di fronte alla condizione attuale della politica italiana, non mi sento di dire che Tangentopoli corrispose a una vittoria della nostra democrazia. Tangentopoli fu la vittoria di un’Istituzione dello Stato, la Magistratura, su un'altra istituzione: il Parlamento della Repubblica. La Magistratura, è innegabile, svolse la propria funzione, l’esercizio dell’azione penale, ma lo fece con modi ed efficienza sino a quel momento sconosciute e, vorrei aggiungere, ancora distanti dall’esperienza quotidiana di un comune cittadino. Chi ha avuto a che fare con la Giustizia, sa bene quanta burocrazia, lungaggini, inciuci tra notabili avvocati e tempi morti occorrono per arrivare a una sentenza che, il più delle volte, non soddisfa mai nessuno, proprio a causa dei tempi biblici che servono per arrivarci. Da questo punto di vista, Tangentopoli è stata più un feroce regolamento di conti tra apparati dello Stato, che una rinascita democratica. Di fronte alla latitanza dell’elettorato, la Magistratura ha deciso di fare il proprio corso, come una valanga, che quando si mette in moto non conosce ostacoli e scivola a valle con furia. E poi, a parte Sergio Cusani e qualche altro faccendiere, chi è che ha veramente pagato per le proprie colpe nei riguardi dello Stato? Bettino Craxi? Arnaldo Forlani? Cirino Pomicino? Al primo dedicheranno presto strade e piazze. Agli altri... sono tranquilli e sereni a condurre i loro affari e dai più vengono pure rimpianti. Direbbe Shakespeare: molto rumore per nulla.

In una democrazia matura, il cambiamento interviene sempre e soltanto per opera della sovranità popolare. Da parte del corpo elettorale, dopo le vicende di Tangentopoli, non è mai avvenuto alcun sovvertimento sostanziale della classe politica italiana. Ai partiti storici e ai nomi altisonanti del tempo si sono sostituiti altri, scelti tra le seconde linee, i faccendieri e gli zelanti portaborse dei vecchi baroni (il novello campione della rinascita vetero- democristiana, alternativa al bipolarismo e di chiaro stampo cerchiobottista, è Pierferdinando Casini, storico portaborse di Arnaldo Forlani). Il popolo è rimasto alla finestra a guardare, ed è ancora fermo sugli spalti, a parteggiare con accaloramento a favore dei giudici e a sostenere nel frattempo, con evidente contraddizione e malafede, il vecchio modo di intendere e di fare la politica. Il popolo continua a partecipare solo, nel momento e laddove ne ricava un vantaggio.

Tangentopoli ci ha restituito un Paese di fatto spaccato in due e quotidianamente dilaniato dalla rissosità dei due contendenti istituzionali. Fintanto che non capiremo che la democrazia siamo noi, ciascuno di noi, con la qualità del nostro impegno, della nostra partecipazione e del modo responsabile con cui operiamo le nostre scelte, la rissa andrà avanti e il Paese inesorabilmente alla deriva. La qualità democratica di un Paese non si giudica dalla corposità e severità dei suoi sistemi, giudiziario e sanzionatorio, ma dal modo in cui la comunità e i suoi rappresentanti interpretano, si conformano e rispettano le leggi che essi stessi si sono date.

Qualunquismo e astensionismo: la Democrazia è un pericolo

È evidente a chiunque che in Italia sta avendo luogo un gravissimo distacco tra il sistema dei partiti, “lievito madre” della democrazia rappresentativa, e i cittadini, ragion d’essere dell’Italia in quanto nazione. La rissosità inconcludente tra gli schieramenti e la sistematicità con cui si susseguono scandali, inchieste della magistratura e conseguenti arresti, sono elementi alla base della disaffezione dei cittadini riguardo al fare politica, e costituiscono il palese presupposto di due fenomeni dilaganti: il qualunquismo; l’astensionismo. Il primo, crescente soprattutto tra i giovani, sempre più disillusi, disincantati, frustrati nelle loro aspirazioni di crescita e affermazione, nichilisti e distanti dall’idea che possa esistere, oltre il ristretto confine percettivo- morale che li identifica, una res publica di ordine superiore: un’entità collettiva, dalla quale possano ricevere e verso la quale orientare traguardi, scelte, il proprio appassionato contributo di partecipazione e di testimonianza. Il secondo, invece, è in aumento soprattutto tra coloro che negli anni passati o anche più recentemente, hanno voluto sentirsi parte attiva della politica, partecipando alla vita dei partiti, sostenendoli dall’esterno e dall’interno, tesserandosi, contribuendo al loro consolidamento, affezionandosi ai loro leader e ai loro programmi di rinnovamento ideologico. Per ciascuno dei due gruppi sociali, seppure con gradi di consapevolezza e modalità ben diverse, sembra sia stata frustrata l’idea fondo, quella di essere parte integrante di un progetto più grande: l’Italia. La rassegnazione, circa l’immodificabilità e irredimibilità del sistema, è diventata fattor comune tra qualunquisti e astensionisti. I primi, in modo particolare, riducono la questione affermando che tanto, in politica, sono tutti uguali, che senso avrebbe, quindi, informarsi o impegnarsi per qualcosa o qualcuno. Se si decide di andare a votare e il meteo non suggerisce altre scelte, ben più goderecce, si sceglie il candidato più simpatico, quello che è stato suggerito dall’amico o che va di moda, sulla base delle voci di strada. I secondi tendono, invece, a discutere tra loro, per piangersi addosso e rimpiangere, posti di fronte all’inquietante interrogativo di sempre, quanto meno a sinistra: che fare?. Il risultato è, alla fine, identico: la non partecipazione, patologia grave della nostra democrazia rappresentativa, che rischia per questo malessere endemico di tramontare definitivamente. Il vero pericolo per la democrazia, infatti, non risiede tanto nella spinta anarchica del megalomane per eccellenza, a tutti ben noto, ma nei cittadini che non partecipano alla vita pubblica, che non vivono, non testimoniano e non alimentano, con la loro fattiva partecipazione, la Democrazia.

Il problema, quindi, è come fare a recuperare i cittadini e i giovani, soprattutto, alla politica e alla partecipazione democratica. Io credo che la soluzione sia da sperimentarsi nel favorire la costituzione di movimenti locali, che incoraggino l’avvicinamento dei cittadini alla vita e alle scelte della comunità in cui risiedono. I grandi “partiti apparato”, quelli che per fare opinione abbisognano sempre più di presenza negli spettacoli televisivi e di un esasperato cicaleccio pseudo- giornalistico, sono dal mio modesto punto di vista arrivati al capolinea della storia. Quello che può riavvicinare la gente comune alla politica è il loro coinvolgimento fattivo nelle faccende dell’ambito territoriale in cui vivono. Tali questioni sono almeno comprensibili, a livello locale, e vi è in più la possibilità di tracciare, con maggiore consapevolezza e precisione, il quadro delle responsabilità specifiche, inerenti agli insuccessi o ai meriti di una determinata azione politica. La democrazia è in pericolo perché si è andata smarrendo la possibilità di sperimentarla concretamente da parte di ciascuno di noi. La graduale burocratizzazione dei rapporti sociali, la diffusa e pervasiva presenza dei partiti nella vita pubblica e l’alienazione della gente comune rispetto alle istituzioni e allo Stato, sempre più distanti da ciò che il cittadino sperimenta quotidianamente nella propria comunità locale, rischiano di diventare la premessa per uno sbocco drammaticamente possibile: il dogmatismo del pensiero unico dominante. Torniamo a vivere la politica nella comunità cui partecipiamo. Torniamo a viverla con la coscienza di essere non soltanto cittadini vessati e incompresi, ma con la voglia di esprimere la nostra opinione, con forza e determinazione. Aggreghiamoci e rendiamoci promotori di nuovi soggetti politici locali, che diano chiare risposte e indicazioni serie, rigorose e severe all’autoreferenzialità delle ristrette oligarchie imperanti nei partiti nazionali. Buona comunità a tutti!

domenica 6 dicembre 2009

Saccu Leggiu (sacco vuoto) e politica

Il vuoto di partecipazione creatosi all’interno dei processi di rappresentatività democratica, dovuto, come cercherò di spiegare, alla sostanziale latitanza dei cittadini rispetto al “fare politica”, ha determinato la fenomenologia del “saccu leggiu”.
La politica è sempre più intesa come affare sporco e in ogni caso “privato" dei partiti o, peggio ancora, dei loro leader. È una specie di mestiere al quale si accede per cooptazione o tramite una sorta di rituale: le elezioni. È un traguardo personale di affermazione e di riscatto sociale, che assicura vantaggi e privilegi a chi ne beneficia, oltre che visibilità, prestigio e la quasi assoluta impunità per ogni ed eventuale malefatta. È un contesto nel quale i migliori non sono necessariamente i più capaci, anzi, spesso sono soltanto i più furbi, quelli che sanno osare di più in termini di trasformismo, opportunismo o arrivismo. Purtroppo per noi, a queste caratteristiche spesso corrispondono anche i personaggi ed i rappresentanti più disonesti.

Ma chi è il “saccu leggiu” in politica e, soprattutto, i suoi comportamenti e i suoi modi di essere, a quali conclusioni ci possono condurre?
Vorrei partire dicendo che, se fosse stato davvero “leggiu”, al primo soffio di vento il “saccu” sarebbe volato via già da tempo. Invece, le intemperie non lo scalfiscono affatto e forse perché, sino ad oggi, nessuno ha mai voluto soffiare seriamente contro di lui.

Da alcune parti si dice che il “saccu leggiu” è un fenomeno anacronistico, destinato ad essere spazzato via dall’incalzante rinnovamento, già in atto, presso la nostra sempre più informata ed acculturata società civile. Ad oggi, forse anche per la contumacia di molti media ufficiali, pare che il “saccu leggiu” non solo continui a resistere, ma che riesca perfino a trasformarsi con prontezza, a moltiplicarsi e a tramandare nel tempo il proprio patrimonio “genetico”, di padre in figlio, in un processo di “evoluzione della specie” del tutto simile a quello biologico. Il “saccu leggiu” gode, infatti, di straordinarie capacità metaboliche, che gli permettono di lasciare intatta la propria identità strutturale e di riassorbire qualunque perturbazione esterna.

Da questi eventi il “saccu leggiu” dimostra pure di saper derivare nuova linfa vitale e di riuscire a ricomporre quel miscuglio casuale di idee, punti di vista e valori morali, dei quali, per natura e vocazione, appare sempre fortemente intriso. Rivelatrice, al riguardo, è la terminologia a cui fa ordinariamente ricorso, sempre attuale e coerente con il bisogno di evocare e trasfondere nella società in cui vive, nuove speranze, nuovi ottimismi, insieme a vecchi allarmismi o ad ostacoli e minacce che, ineluttabilmente, si frappongono a quella visione di progresso da lui tanto auspicata. Riesce, perfino, a riportare dalla sua parte e ad annullare, banalizzandone i contenuti evocativi, i neologismi che qualcuno osa coniare per denigrarlo. Si pensi alla parola “casta”. Oggi se ne parla a tal punto che nessuno ci fa più caso. Ma l’aspetto più paradossale è che ad utilizzare il termine e a parlarne siano, proprio e soprattutto, i “sacchi leggi”!

Soprattutto nella fase iniziale del suo percorso di affermazione politico-sociale, il “saccu leggiu” dimostra, a ben vedere, molta buona fede, ma anche una scarsa visione ideologica e conoscenza storica. È quasi sempre animato da buone intenzioni e ritiene di essere colmo di virtù e saggezza. Si ritiene la guida naturale della sua collettività, capace di interpretare e di esprimere in sintesi le differenti aspettative; il leader finalmente in grado di superare lo strenuo e paralizzante ostracismo delle differenti ideologie, alle quali, comunque, egli attinge in modo molto trasversale.

Rispetto a ciò che non realizza, il “saccu leggiu” non prova alcuna frustrazione e nulla lo smuove dalla convinzione iniziale circa le sue doti personali. Una persona comune, al suo posto, prenderebbe atto e coscienza della propria inettitudine, lasciando umilmente il posto. Il “saccu leggiu”, invece, persevera testardo con atteggiamento messianico e nel contempo vittimista, convinto com’è che nessuno sia in grado di sostituirlo e che ad ostacolarlo siano fatti imponderabili, ma, soprattutto, indipendenti dalla forza della sua ragione.

Nell’approccio alle questioni politiche, il “saccu leggiu” adotta sempre una visione contingente, basata su una percezione epidermica delle priorità collettive. Con grande perspicacia, egli monta, smonta e rimonta continuamente la propria idea di futuro, rimanendo in tal modo sempre attuale, coerente e carismatico. La sua intelligenza è davvero superiore, anche perché, per emergere, spesso si attornia di intelletti piuttosto modesti, che nutrono nei suoi riguardi una devozione quasi apostolica e ai quali, comunque, dispensa ruoli e favori sempre fortemente correlati, nel prestigio, alla sua ascesa personale. Dimostra, inoltre, una straordinaria abilità nel confondere gli interlocutori e nell’esprimere, laddove per lui si palesino difficoltà, l’esatto contrario di quanto sembrava aver sostenuto solo poco tempo prima.

Nel confronto dialettico adotta sempre un criterio di tipo differenziale ed oppositivo ad ogni costo, in quanto vede se stesso come il solo che sia in grado di affrontare e risolvere le questioni da lui, in quel momento, giudicate rilevanti. Ha necessità vitale di un opponente, poiché i limiti ed i vizi di quest’ultimo servono, per differenza e contrasto, ad esaltare le sue doti di leader. Peraltro, questa forma di apparente scontro con l’avversario, che si consuma con punte anche elevate di plateale maleducazione reciproca, lo aiuta ad evitare il confronto diretto sui contenuti, relativamente ai quali, sia lui che l’opponente, spesso anch’egli “saccu leggiu”, dimostrano un’assoluta impreparazione o, al massimo, una conoscenza molto superficiale. All’interno di questa illusoria contrapposizione, quindi, tra i due “sacchi leggi” finisce con il sostanziarsi un tacito accordo di tipo corporativistico/solidaristico, che legittima entrambi e che prende in scarsissima considerazione le effettive capacità di ascolto e comprensione degli astanti. Il “saccu leggiu”, infatti, è talmente arrogante e corporativo, da non temere affatto la democrazia dell’alternanza, nella quale riesce sempre e comunque a trovare un posto e all’interno della quale trova tutto il tempo per elaborare il proprio piano d’azione futuro. Oltretutto, nell’attuale sistema di formazione della rappresentanza democratica, il “saccu leggiu” dispone di un metodo formidabile, che gli assicura sovranità assoluta e potere incontrastato di decisione. L’attuale meccanismo elettorale, infatti, ha privato il cittadino del diritto elementare di scegliere il proprio candidato, in base al nome e al curriculum.

Ciò che il “saccu leggiu”, invece, teme è l’astensionismo di massa e la critica di quanti, in modo indipendente, sono ancora capaci di esprimere il proprio punto di vista nella società civile, al di fuori delle apparenze formali e dei pur sempre comodi steccati ideologici. Di fronte al sorgere di tali movimenti, che per nostra fortuna sempre più visibili e spontanei nella società attuale, il “saccu leggiu”, con sostegno corporativo, prova a cooptare quanti muovono la critica con maggiore accanimento e, laddove non vi riesce, accusa costoro di qualunquismo, di generica antipolitica o di scarso senso di responsabilità verso la cosa pubblica.

Al punto in cui siamo giunti, ci dovremmo porre alcune domande, con l’obiettivo di provare a dare ad esse una risposta:

I cittadini sono i responsabili o le vittime di tale fenomeno?

Per quale ragione le elezioni, ovvero il momento di massima espressione della maturità democratica di una società, si sono ridotte a nulla più che ad una specie di concorso pubblico?

Perché, durante le elezioni, insieme ai politici veri si trovano a concorrere, sullo stesso piano, starlette ed imbonitori televisivi, faccendieri, avventurieri, ecc.?

La sensazione, che almeno io ricavo, è che i cittadini abbiano perso completamente di vista la loro funzione politica nella società. Anzi penso che, a ritenere il voto come l’occasione per esprimere liberamente e democraticamente la propria visione politica e, soprattutto, l’ideale personale di benessere futuro e collettivo, siano rimasti soltanto i più anziani o forse coloro, giovani e adulti, che volontariamente partecipano meno ai riti di massificazione globale del pensiero o agli effetti anestetizzanti dei luoghi comuni e dei cliché dispensati dai media. La maggioranza dei nostri concittadini sembra, invece, partire dal presupposto che in politica siano tutti uguali e corrotti o, al limite, corruttibili una volta entrati nel giro, e che sia pertanto inutile ragionare intorno alle “utopie” circa il futuro possibile o migliore, ma ben più pratico ricavare, da questa opportunità e dal proprio voto, l’immediato tornaconto personale. In tale contesto e a fronte di questa de-responsabilizzazione sociale, risoltasi in una sostanziale “cambiale in bianco” girata dai cittadini ai partiti, la politica ha finito col perdere di vista i propri contenuti e ha cominciato ad esaltare tutto ciò che è contingente, ovvero tutto quanto possa, cavalcando l’attualità e l’emotività popolare, catturare nel breve i maggiori consensi elettorali.

Se il cittadino è portato a riflettere intorno a questa realtà, la risposta che se ne deriva è quella di un “qualunquismo di necessità”, ovvero di una forma di vittimismo, consapevole, che si giustifica, da un lato, con la prepotenza dei politici e, dall’altro, con la scarsa considerazione che si ha degli altri cittadini, i quali sono sempre mossi dall’esclusivo tornaconto personale. In tal modo, ciascuno finisce con il perseguire quello proprio, di tornaconto, e con il legittimare il politico più sfrontato, contribuendo, alla fine, all’involuzione sociale del sistema democratico e alla perdita di ogni identità e ragione per essere e sentirsi parte, attiva, di una collettività.

Il cittadino comune è, quindi, il responsabile ultimo di ogni attuale fenomeno di degenerazione nel sistema della rappresentanza politica ed è, quindi, da lui che si deve ripartire per rifondare una società nuova, che sia davvero democratica. Senza creare nuovi partiti, bisognerebbe riuscire a riprendere in mano la politica, facendo in modo che quelli che esistono ricomincino a fare politica, in modo autentico, sulla base di una dialettica sana e nell’interesse di tutti. Difetti e pregi della nostra classe politica dovrebbero essere oggetto di un dibattito costante e di un confronto pubblico periodico, nel quale i responsabili possano finalmente dare il conto delle loro iniziative o della loro inerzia.

Attraverso il dibattito e la trasparenza si devono aiutare le persone comuni, quelle che alla fine con il loro voto decidono, a pensare in modo autenticamente e finalmente libero, sulla base di elementi oggettivi che servano a creare in loro conoscenza documentata sul fenomeno, coscienza civica e autonomia di giudizio.