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domenica 6 dicembre 2009

Saccu Leggiu (sacco vuoto) e politica

Il vuoto di partecipazione creatosi all’interno dei processi di rappresentatività democratica, dovuto, come cercherò di spiegare, alla sostanziale latitanza dei cittadini rispetto al “fare politica”, ha determinato la fenomenologia del “saccu leggiu”.
La politica è sempre più intesa come affare sporco e in ogni caso “privato" dei partiti o, peggio ancora, dei loro leader. È una specie di mestiere al quale si accede per cooptazione o tramite una sorta di rituale: le elezioni. È un traguardo personale di affermazione e di riscatto sociale, che assicura vantaggi e privilegi a chi ne beneficia, oltre che visibilità, prestigio e la quasi assoluta impunità per ogni ed eventuale malefatta. È un contesto nel quale i migliori non sono necessariamente i più capaci, anzi, spesso sono soltanto i più furbi, quelli che sanno osare di più in termini di trasformismo, opportunismo o arrivismo. Purtroppo per noi, a queste caratteristiche spesso corrispondono anche i personaggi ed i rappresentanti più disonesti.

Ma chi è il “saccu leggiu” in politica e, soprattutto, i suoi comportamenti e i suoi modi di essere, a quali conclusioni ci possono condurre?
Vorrei partire dicendo che, se fosse stato davvero “leggiu”, al primo soffio di vento il “saccu” sarebbe volato via già da tempo. Invece, le intemperie non lo scalfiscono affatto e forse perché, sino ad oggi, nessuno ha mai voluto soffiare seriamente contro di lui.

Da alcune parti si dice che il “saccu leggiu” è un fenomeno anacronistico, destinato ad essere spazzato via dall’incalzante rinnovamento, già in atto, presso la nostra sempre più informata ed acculturata società civile. Ad oggi, forse anche per la contumacia di molti media ufficiali, pare che il “saccu leggiu” non solo continui a resistere, ma che riesca perfino a trasformarsi con prontezza, a moltiplicarsi e a tramandare nel tempo il proprio patrimonio “genetico”, di padre in figlio, in un processo di “evoluzione della specie” del tutto simile a quello biologico. Il “saccu leggiu” gode, infatti, di straordinarie capacità metaboliche, che gli permettono di lasciare intatta la propria identità strutturale e di riassorbire qualunque perturbazione esterna.

Da questi eventi il “saccu leggiu” dimostra pure di saper derivare nuova linfa vitale e di riuscire a ricomporre quel miscuglio casuale di idee, punti di vista e valori morali, dei quali, per natura e vocazione, appare sempre fortemente intriso. Rivelatrice, al riguardo, è la terminologia a cui fa ordinariamente ricorso, sempre attuale e coerente con il bisogno di evocare e trasfondere nella società in cui vive, nuove speranze, nuovi ottimismi, insieme a vecchi allarmismi o ad ostacoli e minacce che, ineluttabilmente, si frappongono a quella visione di progresso da lui tanto auspicata. Riesce, perfino, a riportare dalla sua parte e ad annullare, banalizzandone i contenuti evocativi, i neologismi che qualcuno osa coniare per denigrarlo. Si pensi alla parola “casta”. Oggi se ne parla a tal punto che nessuno ci fa più caso. Ma l’aspetto più paradossale è che ad utilizzare il termine e a parlarne siano, proprio e soprattutto, i “sacchi leggi”!

Soprattutto nella fase iniziale del suo percorso di affermazione politico-sociale, il “saccu leggiu” dimostra, a ben vedere, molta buona fede, ma anche una scarsa visione ideologica e conoscenza storica. È quasi sempre animato da buone intenzioni e ritiene di essere colmo di virtù e saggezza. Si ritiene la guida naturale della sua collettività, capace di interpretare e di esprimere in sintesi le differenti aspettative; il leader finalmente in grado di superare lo strenuo e paralizzante ostracismo delle differenti ideologie, alle quali, comunque, egli attinge in modo molto trasversale.

Rispetto a ciò che non realizza, il “saccu leggiu” non prova alcuna frustrazione e nulla lo smuove dalla convinzione iniziale circa le sue doti personali. Una persona comune, al suo posto, prenderebbe atto e coscienza della propria inettitudine, lasciando umilmente il posto. Il “saccu leggiu”, invece, persevera testardo con atteggiamento messianico e nel contempo vittimista, convinto com’è che nessuno sia in grado di sostituirlo e che ad ostacolarlo siano fatti imponderabili, ma, soprattutto, indipendenti dalla forza della sua ragione.

Nell’approccio alle questioni politiche, il “saccu leggiu” adotta sempre una visione contingente, basata su una percezione epidermica delle priorità collettive. Con grande perspicacia, egli monta, smonta e rimonta continuamente la propria idea di futuro, rimanendo in tal modo sempre attuale, coerente e carismatico. La sua intelligenza è davvero superiore, anche perché, per emergere, spesso si attornia di intelletti piuttosto modesti, che nutrono nei suoi riguardi una devozione quasi apostolica e ai quali, comunque, dispensa ruoli e favori sempre fortemente correlati, nel prestigio, alla sua ascesa personale. Dimostra, inoltre, una straordinaria abilità nel confondere gli interlocutori e nell’esprimere, laddove per lui si palesino difficoltà, l’esatto contrario di quanto sembrava aver sostenuto solo poco tempo prima.

Nel confronto dialettico adotta sempre un criterio di tipo differenziale ed oppositivo ad ogni costo, in quanto vede se stesso come il solo che sia in grado di affrontare e risolvere le questioni da lui, in quel momento, giudicate rilevanti. Ha necessità vitale di un opponente, poiché i limiti ed i vizi di quest’ultimo servono, per differenza e contrasto, ad esaltare le sue doti di leader. Peraltro, questa forma di apparente scontro con l’avversario, che si consuma con punte anche elevate di plateale maleducazione reciproca, lo aiuta ad evitare il confronto diretto sui contenuti, relativamente ai quali, sia lui che l’opponente, spesso anch’egli “saccu leggiu”, dimostrano un’assoluta impreparazione o, al massimo, una conoscenza molto superficiale. All’interno di questa illusoria contrapposizione, quindi, tra i due “sacchi leggi” finisce con il sostanziarsi un tacito accordo di tipo corporativistico/solidaristico, che legittima entrambi e che prende in scarsissima considerazione le effettive capacità di ascolto e comprensione degli astanti. Il “saccu leggiu”, infatti, è talmente arrogante e corporativo, da non temere affatto la democrazia dell’alternanza, nella quale riesce sempre e comunque a trovare un posto e all’interno della quale trova tutto il tempo per elaborare il proprio piano d’azione futuro. Oltretutto, nell’attuale sistema di formazione della rappresentanza democratica, il “saccu leggiu” dispone di un metodo formidabile, che gli assicura sovranità assoluta e potere incontrastato di decisione. L’attuale meccanismo elettorale, infatti, ha privato il cittadino del diritto elementare di scegliere il proprio candidato, in base al nome e al curriculum.

Ciò che il “saccu leggiu”, invece, teme è l’astensionismo di massa e la critica di quanti, in modo indipendente, sono ancora capaci di esprimere il proprio punto di vista nella società civile, al di fuori delle apparenze formali e dei pur sempre comodi steccati ideologici. Di fronte al sorgere di tali movimenti, che per nostra fortuna sempre più visibili e spontanei nella società attuale, il “saccu leggiu”, con sostegno corporativo, prova a cooptare quanti muovono la critica con maggiore accanimento e, laddove non vi riesce, accusa costoro di qualunquismo, di generica antipolitica o di scarso senso di responsabilità verso la cosa pubblica.

Al punto in cui siamo giunti, ci dovremmo porre alcune domande, con l’obiettivo di provare a dare ad esse una risposta:

I cittadini sono i responsabili o le vittime di tale fenomeno?

Per quale ragione le elezioni, ovvero il momento di massima espressione della maturità democratica di una società, si sono ridotte a nulla più che ad una specie di concorso pubblico?

Perché, durante le elezioni, insieme ai politici veri si trovano a concorrere, sullo stesso piano, starlette ed imbonitori televisivi, faccendieri, avventurieri, ecc.?

La sensazione, che almeno io ricavo, è che i cittadini abbiano perso completamente di vista la loro funzione politica nella società. Anzi penso che, a ritenere il voto come l’occasione per esprimere liberamente e democraticamente la propria visione politica e, soprattutto, l’ideale personale di benessere futuro e collettivo, siano rimasti soltanto i più anziani o forse coloro, giovani e adulti, che volontariamente partecipano meno ai riti di massificazione globale del pensiero o agli effetti anestetizzanti dei luoghi comuni e dei cliché dispensati dai media. La maggioranza dei nostri concittadini sembra, invece, partire dal presupposto che in politica siano tutti uguali e corrotti o, al limite, corruttibili una volta entrati nel giro, e che sia pertanto inutile ragionare intorno alle “utopie” circa il futuro possibile o migliore, ma ben più pratico ricavare, da questa opportunità e dal proprio voto, l’immediato tornaconto personale. In tale contesto e a fronte di questa de-responsabilizzazione sociale, risoltasi in una sostanziale “cambiale in bianco” girata dai cittadini ai partiti, la politica ha finito col perdere di vista i propri contenuti e ha cominciato ad esaltare tutto ciò che è contingente, ovvero tutto quanto possa, cavalcando l’attualità e l’emotività popolare, catturare nel breve i maggiori consensi elettorali.

Se il cittadino è portato a riflettere intorno a questa realtà, la risposta che se ne deriva è quella di un “qualunquismo di necessità”, ovvero di una forma di vittimismo, consapevole, che si giustifica, da un lato, con la prepotenza dei politici e, dall’altro, con la scarsa considerazione che si ha degli altri cittadini, i quali sono sempre mossi dall’esclusivo tornaconto personale. In tal modo, ciascuno finisce con il perseguire quello proprio, di tornaconto, e con il legittimare il politico più sfrontato, contribuendo, alla fine, all’involuzione sociale del sistema democratico e alla perdita di ogni identità e ragione per essere e sentirsi parte, attiva, di una collettività.

Il cittadino comune è, quindi, il responsabile ultimo di ogni attuale fenomeno di degenerazione nel sistema della rappresentanza politica ed è, quindi, da lui che si deve ripartire per rifondare una società nuova, che sia davvero democratica. Senza creare nuovi partiti, bisognerebbe riuscire a riprendere in mano la politica, facendo in modo che quelli che esistono ricomincino a fare politica, in modo autentico, sulla base di una dialettica sana e nell’interesse di tutti. Difetti e pregi della nostra classe politica dovrebbero essere oggetto di un dibattito costante e di un confronto pubblico periodico, nel quale i responsabili possano finalmente dare il conto delle loro iniziative o della loro inerzia.

Attraverso il dibattito e la trasparenza si devono aiutare le persone comuni, quelle che alla fine con il loro voto decidono, a pensare in modo autenticamente e finalmente libero, sulla base di elementi oggettivi che servano a creare in loro conoscenza documentata sul fenomeno, coscienza civica e autonomia di giudizio.

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