Ormai da diverso tempo, relativamente ai temi della spesa pubblica e dello Stato sociale, l’obiettivo della crescita e quello della sostenibilità economica costituiscono la premessa e la condizione necessarie per ogni scelta. Nella nostra società, soprattutto a partire dagli anni 80, la ”economicità di gestione” e la privatizzazione si sono andati sempre più affermando, diventando anzi il criterio di valutazione guida rispetto a tematiche sociali e territoriali delicatissime (sanità, istruzione, infrastrutture primarie, ecc.).
Fino ad allora, la priorità politica era stata quella di migliorare le condizioni di degrado e miseria in cui versavano gran parte delle popolazioni residenti nelle aree più periferiche, in primis, nel mezzogiorno d’Italia. Ponendo al centro di ogni dibattito la “questione meridionale”, la politica di quegli anni mirava a recuperare il pesante ritardo ereditato dal processo di unificazione nazionale e dal regno sabaudo, colpevole di innumerevoli nefandezze nei riguardi del popolo meridionale (si pensi alla famigerata ”Legge Pica”. Nei primi anni dell’annessione, il nuovo stato sabaudo per affermare il suo dominio nei nuovi territori, si impegnò in una guerra spietata contro coloro che non si adattavano al nuovo "ordine". Tutti costoro vennero definiti briganti. Per maggiore sicurezza si inclusero nella lista anche gli oziosi, i vagabondi e le persone sospette. Il potere volle avere mano libera nella repressione! In pochi anni, i morti per le repressioni dovute alla Legge Pica furono superiori a tutti i decessi delle guerre del Risorgimento!).
Sulla scia della ricostruzione post-bellica e del Piano Marshall, lo Stato intervenne nel Mezzogiorno mediante numerose e importantissime iniziative, che produssero radicali mutamenti e che certamente prescinderono da qualunque considerazione di ordine economico. Alla base di tali interventi, infatti, vi era l’idea di dover perseguire con forza traguardi sociali di interesse finalmente nazionale, in settori che, se fossero stati affidati alle logiche stringenti della razionalità economica e delle leggi di mercato, non avrebbero suscitato alcun interesse, determinando l’irrimediabile svuotamento di vasti territori. Rispetto alle priorità che si individuarono, a qualunque altra forma di valutazione, furono quindi anteposti l’interesse ed il benessere della comunità e dei singoli individui, che per troppo tempo erano stati umiliati e violentati nella loro stessa identità. Grazie alla lungimiranza di tale visione politica, i cittadini divennero, in modo consapevole, azionisti ed artefici del proprio futuro civile e con la ricostruzione dell’Italia la politica costituì davvero le premesse per la creazione di un popolo finalmente italiano.
Gli anni cinquanta e sessanta furono anni di interventi e di opere straordinarie per il Paese e per il mezzogiorno d’Italia: la riforma agraria; gli acquedotti e le dighe; la creazione di poli industriali e petrolchimici; la realizzazione di infrastrutture autostradali, di moderni aeroporti e di connessioni ferroviarie; la costruzione di nuovi ospedali; l’avvio del sistema radio-televisivo nazionale, che contribuì a diffondere una cultura ed una identità finalmente italiane; ecc.
Tuttavia, come le cronache ci dimostrarono in seguito, una parte cospicua di questi interventi diede luogo ad opere inutili, faraoniche o incompiute o, in altri casi ancora, le opere produssero effetti diametralmente opposti a quelli che si auspicavano (si pensi alla riforma agraria e alla sua inadeguatezza strutturale nel processo di assegnazione delle terre, che determinò l’abbandono delle campagne, favorì la ricostituzione parziale del latifondo e massicce ondate di emigrazione verso il nord Italia e l’Europa settentrionale). Altri interventi, infine, furono lo scenario e il preludio di gravissimi fenomeni di corruzione, di clientelismo perverso, di processi espansivi della forza lavoro per nulla connessi a ragioni produttive o meritocratiche, ma anche di scellerate contiguità tra potere politico e criminalità organizzata.
Di fronte agli enormi sprechi e ai continui scandali che colpirono irrimediabilmente la credibilità delle nostre istituzioni (ma non anche di quanti, materialmente, hanno perpetrato i reati!), lo Stato reagì perseguendo in chiave prioritaria, le ragioni dell’economicità di gestione e della privatizzazione, anche perché, nel frattempo, in Inghilterra e negli Stati Uniti tali politiche sembravano condurre a traguardi di sicuro progresso.
A partire dagli anni 80, venne quindi avviata la svendita ed il ridimensionamento decisi dell’apparato pubblico, non soltanto di quello produttivo (fatto, questo, assolutamente opportuno), ma anche di quello tradizionalmente riguardante gli interventi di riequilibrio sociale e territoriale, nella convinzione che le istituzioni pubbliche ed il loro personale, non avessero alcuna capacità di gestire risorse ed obiettivi e che i privati fossero l’unica soluzione percorribile.
I rami secchi nelle ferrovie; la sparizione di antiche comunità territoriali, azzerate dal venir meno di molti servizi essenziali; il taglio dissennato delle risorse nelle scuole; la chiusura degli ospedali nei comuni minori; la fuga dei cervelli; il graduale tramonto dello stato sociale, ma anche la progressiva disgregazione del tessuto civico nazionale, con la nascita di movimenti secessionisti, furono alcuni degli effetti di questo repentino mutamento di rotta e di questa risposta indiscriminata all’inefficienza e alla corruzione.
Alla fine di questo processo, per come poi sono andate le cose, possiamo oggi dire che i cittadini italiani hanno subito un danno enorme: l’azzeramento patrimoniale degli enti che garantivano l’erogazione dei servizi sociali; la drastica riduzione degli investimenti nella ricerca scientifica di interesse nazionale, con conseguente ridimensionamento delle prospettive future; la trasformazione di gran parte degli enti dimessi in comode prede per le privatizzazioni (si pensi alla SIP, la cui dismissione è avvenuta a fronte di un cospicuo indebitamento, puntualmente accollato ai cittadini attraverso tariffe esorbitanti e al di fuori di ogni logica di mercato); la conversione di ciò che prima costituiva un sacrosanto diritto, in una prestazione di servizio a pagamento.
L’aspetto più paradossale della vicenda è che, nonostante siano state realizzate diverse privatizzazioni e sia avvenuto l’intervento sostitutivo da parte dei tanto auspicati imprenditori “privati”, la situazione per i cittadini sembra essere cambiata davvero poco. Si pensi alla sanità in Sicilia, dove il ricorso massiccio a strutture private, accreditate con il sistema pubblico regionale, non ha per nulla migliorato l’efficacia ed i tempi delle prestazioni, ma ha anzi prodotto un enorme e sistematico ammanco di risorse finanziarie, regolarmente scaricato sulla collettività con aumenti annuali del prelievo fiscale o con tagli di bilancio ad altri capitoli della spesa sociale. Analogo discorso può essere fatto per i servizi municipali di erogazione dell’acqua e per quelli di raccolta dei rifiuti solidi urbani, relativamente ai quali il passaggio della gestione agli ATO e l’applicazione delle tariffe hanno provocato, negli ultimi anni, aggravi di spesa per la collettività ben superiori al 25% annuo. Alle vecchie forme di corruzione e clientelismo se ne sono, quindi, sostituite altre, meno rozze e più raffinate, ma comunque efficaci a mantenere in piedi il potente comitato d’affari: politica-criminalità-burocrazia-imprenditoria.
Queste brevi considerazioni debbono indurci a discutere su quale ruolo debba svolgere lo Stato nella nostra economia, per tentare di recuperare la funzione della spesa pubblica e dei meccanismi di redistribuzione all’interno del nostro sistema sociale. Personalmente, non ho dubbi che lo Stato debba rinunciare ad ogni tentazione di ruolo imprenditoriale, laddove il suo compito diventi quello di produrre beni e servizi non essenziali per la collettività, per la dignità, l’uguaglianza e la libertà degli individui. Bene, quindi, ha fatto lo Stato a privarsi del controllo di alcune grandi aziende del settore manifatturiero e a rafforzare in tal modo il ruolo di una classe imprenditoriale, importante per il prestigio e per il progresso industriale del nostro Paese. In questi settori, soprattutto quando sussiste una reale concorrenza tra le imprese, la logica del mercato funziona benissimo e soltanto il privato può coglierne le sfumature. La ricerca del profitto non è mai esasperata, ma temperata dalla necessità di dover ricercare continuamente la soddisfazione del cliente, il quale valuta in modo autonomo le offerte concorrenti ed attribuisce a ciascuna di esse il giusto “valore”, in misura proporzionale all’utilità che ne deriva.
La percorribilità di questa logica, invece, mi sembra del tutto inadeguata nei settori in cui l’equilibrio tra “domanda” e “offerta”, se non è opportunamente mediato e regolamentato da un soggetto super partes, può creare fenomeni di asimmetria e di iniquità sociale anche gravi. Si pensi alla sanità. Alla domanda (diritto) di “salute” si contrappone, logicamente, l’offerta di servizi sanitari. Di fronte alla malattia propria o a quella dei propri cari, un cittadino attribuisce a questa offerta valore ed utilità infiniti, anche perché spesso egli manca della necessaria informazione ed è fortemente condizionato sul piano emotivo. Se non ci fosse ancora oggi lo Stato, con la sua funzione di arbitro e di gestore pubblico della sanità, il cittadino resterebbe in balia del privato, fornitore di servizi sanitari, rischiando di subire gravi iniquità e vessazioni.
Allora, la questione del ruolo dello Stato nell’economia e quello correlato della spesa pubblica possono essere seriamente affrontati partendo, innanzitutto, da un riesame accurato del sistema sociale, con grande onestà morale, con ampiezza di dibattito e al di fuori di ogni rigida e preclusiva valutazione economica, approfondendo le modalità con cui tale sistema dovrà essere gestito, per evitare ogni ulteriore forma di corruzione, di spreco e per assicurare il diritto di tutti all’uguaglianza e alla libertà.
L’approccio, a mio avviso, per essere efficace e per ridare senso allo Stato sociale, deve mirare a distinguere in modo netto la componente strategica di ciascun servizio, ovvero quella che assicura la soddisfazione di un diritto fondamentale, da quella che invece non presenta tali caratteristiche. Soltanto le prime, a mio avviso, meritano di essere nuovamente progettate, per essere riservate allo Stato e per assicurare l’erogazione di un servizio assolutamente gratuito e, soprattutto, ad accesso libero per tutti i cittadini, senza distinzione di reddito o di condizione sociale. Le altre componenti potranno invece essere privatizzate. La copertura finanziaria dei relativi costi di gestione andrebbe, prioritariamente, ricercata nel gettito derivante dal prelievo fiscale sul reddito di ogni cittadino, al fine di rendere tutti, consapevolmente, partecipi al costo di un servizio di interesse collettivo e per collegare l’obiettivo della redistribuzione della ricchezza nazionale a serie prospettive di equità e di riequilibrio sociale.
A titolo esemplificativo ed in prima approssimazione, nel servizio sanitario le componenti strategiche del servizio sono: la ricerca farmaceutica; l’erogazione del servizio di diagnosi e cura; l’informazione sanitaria. Nel servizio di istruzione le componenti strategiche sono: l’analisi del fabbisogno formativo; la definizione dei curricoli scolastici; l’insegnamento; la definizione dei criteri e dell’approccio pedagogico; la verifica dell’efficacia dell’apprendimento. Tutto ciò che non appartiene alla catena primaria del servizio potrà, anzi, dovrà essere affidato al privato, nei limiti di un sistema di aggiudicazione che assicuri sempre la trasparenza, la neutralità, eviti il conflitto di interessi e determini l’economicità di gestione (su questi aspetti, per niente secondari e di cruciale importanza, saranno certamente necessari ulteriori analisi, discussioni ed approfondimenti, per cui invito chiunque a fornire un contributo).
Con questo ragionamento non si vuole affatto negare la libertà di fare impresa nella catena primaria del servizio sociale. Anzi, ben vengano le scuole, le cliniche o i corpi di polizia privata. Ciascun imprenditore avrà l’estro e il modo di ricercare le fonti della propria eccellenza in fattori alternativi alla variabile prezzo, ma che, agli occhi di chi acquisterà il servizio, assumeranno una sicura valenza strategica. Chi decide di fare impresa addebiterà, quindi, il costo delle proprie prestazioni a chi, per altrettanto libera scelta, deciderà di rinunciare e di non avvalersi della gratuità del servizio pubblico.
Da questi considerazioni occorre, a mio avviso, partire, perché è questa l’essenza della questione in materia di spesa pubblica e di stato sociale. Attraverso un’analisi rigorosa dell’attuale sistema di erogazione e dei meccanismi impliciti di redistribuzione e di equità, la politica dovrà ritrovare la forza di discutere, di confrontarsi e di prefigurare uno scenario di benessere collettivo, che sia tale da assicurare, finalmente, la trasparenza dell’azione amministrativa, l’indipendenza del gestore dal potere politico, la neutralità dell’istituzione rispetto a chi usufruisce del servizio, l’uguaglianza sostanziale e la libertà per tutti i cittadini.
Senza questo genere di analisi rischiamo di smantellare ulteriormente e di colpire in modo ancor più indiscriminato un sistema sociale, che è poi l’essenza di ogni Stato civile. Ma rischiamo anche di continuare a foraggiare quanti, nel nome di un falso liberismo economico, sfuggono al gioco del libero mercato e trovano nello Stato il loro unico “Cliente” finanziatore.