Informazioni personali

Visualizzazione post con etichetta libertà. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta libertà. Mostra tutti i post

domenica 11 maggio 2008

Le malattie "orfane" ed il ruolo della spesa pubblica

Tra le molte patologie che affliggono l’uomo, ve ne sono alcune che la comunità scientifica qualifica come “orfane”. La ragione di una simile denominazione è da ricercarsi nel numero limitato dei pazienti che ne sono colpiti, ma anche nell’insufficiente reddito a disposizione di coloro che le contraggono. Sono “orfane” perché interessano, principalmente, le aree più povere del pianeta, dove le condizioni di vita sono indubbiamente più estreme e la miseria endemica. Sono “orfane” perché la logica stringente dell’azionista investitore, che “rischia” i propri quattrini in borsa, impone una scelta oculata dei progetti ricerca, che assicuri la minimizzazione dei tempi di rientro dall’investimento iniziale e la contestuale massimizzazione dei rendimenti. Sono “orfane” perché, sulla scia delle precedenti considerazioni, non giustificano alcuna attività di ricerca scientifica da parte privata, che sia mirata e davvero approfondita.

Lo sviluppo di un nuovo rimedio terapico è un processo che necessita di tempi prolungati di ricerca e sperimentazione clinica e che richiede investimenti finanziari ingenti. Proprio a causa dei traguardi aleatori a cui può spesso giungere, ma anche degli allettanti guadagni che ne possono scaturire, la ricerca medica è, già da tempo, abbinata a sofisticate tecniche di simulazione e selezione finanziaria. Un progetto di ricerca medica sarà considerato valido se il business plan, che lo rappresenta, permette anche di individuare un saldo finanziario netto positivo, tra ciò che risulta necessario investire all’inizio e ciò che, ragionevolmente, potrà ricavarsi dal futuro sfruttamento commerciale del rimedio terapico. Il giudizio finale di fattibilità sarà ovviamente orientato a privilegiare una prospettiva di rischio prudente, volta a salvaguardare la ricchezza attualmente disponibile per l’investitore e a stimolarne, comunque, l’impiego alternativo efficiente. Quindi, se un’ipotesi di ricerca non sarà in grado di dimostrare, a chi possiede il capitale, risultati finanziari allettanti, il progetto sarà “opportunamente” scartato e con esso il rimedio terapico sottostante. L’ovvio corollario di questa morale è che un numero considerevole di individui rimarranno abbandonati alla loro sorte o, nella migliore delle ipotesi, a cure del tutto inadatte, a meno che il male da cui sono afflitti, nel frattempo, non si sia diffuso presso altri soggetti a reddito più elevato. Un esempio eclatante di tale eventualità può ricavarsi dall’epica lotta contro la poliomielite, che per anni coinvolse l’intero mondo occidentale. Un traguardo davvero leggendario nella storia della medicina, probabilmente secondo, in ordine di importanza, alla sola scoperta degli antibiotici. La poliomielite è stata sconfitta ed è pressoché scomparsa in tutto il mondo, grazie allo sforzo congiunto di ricerca privata e pubblica che venne a suo tempo profuso e all’impegno diretto delle più importanti istituzioni ed Università internazionali. Ma venne sconfitta anche perché la poliomielite colpì, con un picco negli anni cinquanta, diverse migliaia di bambini americani, incluso, negli anni trenta, Franklin Delano Roosvelt, futuro Presidente degli Stati Uniti d’America.

Certo, prendere coscienza di tali meccanismi ci può rendere inquieti, anche perché la sensibilità tipicamente “occidentale” ed europea di cui, più o meno tutti, siamo permeati, non ci consente di ammettere che, alla fine, un sano e robusto rendimento finanziario possa valere più di una vita umana. Forse è anche per questa ragione che, quando siamo invitati a riflettere intorno a tali aberrazioni, ci precipitiamo a digitare i numeri telefonici della solidarietà o a versare somme su bollettini postali pre-intestati, quasi volessimo lavare la nostra coscienza. È anche vero, però, che la nostra indignazione è sempre più pilotata e che sopravanza solo quando assistiamo alla scena televisiva di un moribondo o raccogliamo l’accorato appello di un presentatore televisivo, che tra lustrini e paillette, ci commuove e ci spinge (quasi sempre, senza dare l’esempio) a gesti di una carità sempre più istintiva. Quasi mai il nostro atteggiamento ci spinge verso una riflessione critica più profonda, intorno al fatto che il palliativo morale della beneficenza “a comando” serve, piuttosto, a surrogare o a colmare il vuoto di spesa pubblica che si è creato nel nostro sistema di ricerca scientifica, anche in campo medico-sanitario.

La spesa pubblica è un traguardo di civiltà straordinario, che qualifica gli Stati e le collettività che ne costituiscono il fondamento giuridico-istituzionale. È il principale risultato di un processo politico, che antepone gli interessi dei cittadini alle logiche e alla razionalità privata. È uno strumento di equità che può contribuire a risolvere le ingiustizie del mercato, laddove il privato non ravviserà mai alcun interesse ad investire. La spesa pubblica attribuisce un significato pratico alla parola “collettività”: è il prerequisito fondante e qualificante di ogni ragionamento politico che sia volto a garantire i valori universali dell’uguaglianza e della liberta. Negli ultimi anni, la funzione sociale della nostra spesa pubblica, specie in campo sanitario, è stata mortificata dai continui scandali e dalla corruzione clientelare, perpetrata, in modo sistematico e a danno di noi tutti, da burocrati mediocri, da falsi imprenditori e da politici indegni. Posti di fronte a tale spettacolo, noi cittadini abbiamo in stragrande maggioranza avallato lo smantellamento dello Stato sociale e del nostro sistema di ricerca pubblica, in questo rassicurati: dalla prospettiva efficientista delle privatizzazioni; da una presunzione di discontinuità politica, scaturente da un proliferare di partiti, affatto corrispondente ad un serio ricambio delle classi dirigenti; dalle vane promesse di un liberismo economico, portatore di un benessere diffuso. Da questi convulsi processi di “rinnovamento” non abbiamo ricavato altro che ulteriore sperpero di denaro pubblico e la perdita di competitività internazionale, in settori della ricerca scientifica nei quali il nostro Paese primeggiava.

Pertanto, fintanto che non saremo capaci di restituire forza e dignità al nostro sistema sociale di spesa pubblica e di pretendere dai nostri politici risposte e programmi non estemporanei di investimento collettivo, per l’uguaglianza e per la libertà di ogni individuo, le patologie di abbiamo discusso in premessa continueranno ad essere denominate “orfane”, questa volta anche per causa nostra.

domenica 13 aprile 2008

Ancora su: uguaglianza, libertà e liberismo

Il discorso di Robert Kennedy (18 marzo 1968, presso l’Università del Kansas, pochi giorni prima del suo barbaro assassinio) è uno dei primi post che ho voluto inserire nel blog. Ho ritenuto di doverlo fare per testimoniare, anch’io e nel mio piccolo, la sua grandezza e per rimarcare la modernità e la lucidità del suo pensiero. Il discorso di Robert Kennedy ci invita a riflettere su gran parte delle tematiche sociali che, ancora oggi, la nostra società non è stata in grado di affrontare e risolvere: l’inquinamento ambientale; il diritto alla salute; la sicurezza stradale e quella personale; la televisione e la violenza che questa ci propina continuamente; le armi, la guerra e i modi di affrontare le crisi internazionali; la famiglia ed il diritto di ognuno a svagarsi e a godere del proprio tempo libero; l’imparzialità della giustizia; l’onesta della pubblica amministrazione. È un pensiero moderno e lucido perché non si limita ad una sterile o generica invettiva, ma perché coglie nelle contraddizioni e nelle miopie del PIL (Prodotto Interno Lordo), le cause principali del degrado morale e civile in cui versa la nostra civiltà. Nessuna società, ci dice Robert Kennedy, riferendosi all’America dei suoi anni, può giudicarsi civile e progredita sulla base esclusiva del PIL, ovvero sul volume di beni e servizi materiali che questa società dimostra di saper produrre, accumulare e consumare. Il PIL misura tutto tranne quei valori che rendono la vita veramente degna di essere vissuta.

Eppure, nonostante le questioni etiche poste da Robert Kennedy siano oramai diventate temi centrali in molti dibattiti sullo sviluppo, nessuna forza politica o sociale ha sin qui dimostrato il coraggio di voler ribaltare il ruolo, pervasivo, delle priorità economiche e scardinare, quindi, la logica del PIL e delle sue principali leve di gestione (controllo di inflazione e deficit, politica monetaria). Per quale ragione?

Invero, la nostra società ha attribuito al consumismo e alla ricchezza materiale significati equivalenti a quello di benessere ed il sistema economico ha finito per l’essere strutturato sull'idea che bisogna produrre e consumare sempre di più per essere felici. Siamo figli dell’euforia del dopoguerra, della ricostruzione e del boom economico. Nonostante l’austerity (quando Tony Santagata cantava: “se non vuoi andare a piedi prendi l’asino”), gli shock petroliferi e le crisi internazionali, abbiamo incessantemente perseguito la rincorsa del benessere materiale, in una progressione sempre più squalificante: necessario (fino al 1960); utile (1970); superfluo (1980); effimero (1990); inutile (oggi); ? (domani). Il paradigma della nostra epoca può sintetizzarsi nello slogan: “Chi più ha, meglio sta” e, se è pur vero che “anche i ricchi piangono”, è molto meglio “avere che essere”. Quindi, a parte Robert Kennedy, che era senz’altro un illuminato e che quasi certamente è stato assassinato per tale ragione e per ciò che ebbe il coraggio di dire, in tutti i paesi occidentali si è cavalcata l’onda del consenso politico a suon di programmi di accumulazione materiale e di prospettive di consumo crescente. Tale concezione di futuro e di dignità della vita si è poi ancor più radicata nel nostro sistema, dopo che la visione sociale alternativa, fino ad allora incarnata dall’Unione Sovietica, ha raggiunto miseramente il capolinea della storia, trascinando con sé le illusioni di molti. All’interno di questo scenario e di tali premesse, condivise da quasi tutti e perciò vincenti, il PIL ed la visione liberista distorta che vi sta alla base non potevano che essere le basi di ogni programma politico.

Tuttavia, per dirla con Robert Kennedy e da cittadini del nostro tempo e da osservatori degli eventi internazionali: che c’entra il PIL con la qualità della vita, presente e futura; con il benessere degli individui di oggi e di domani; con il diritto di ognuno all’uguaglianza e, quindi, alla libertà? La Cina, che in questo momento registra il più alto tasso di crescita in termini di PIL, può per questo definirsi: il luogo ideale in cui tutti noi vorremmo andare a vivere; dove i cittadini stanno bene e sono autenticamente liberi; dove le generazioni che verranno troveranno un posto senz’altro migliore; dove la vita di ognuno ha ed avrà pari dignità con quella degli altri? Se nutriamo e me lo auguro, qualche dubbio, allora dovremmo cominciare a chiederci: gli individui che cosa desiderano, in tutto il mondo ed in ogni tempo, oltre la frontiera dei loro bisogni materiali? Ma davvero il PIL basta, da solo, a misurare le istanze e le aspettative di ognuno di noi? Ma è davvero così necessario continuare ad accumulare ricchezza materiale, in modo ossessivo e quasi che l'accumulazione di beni fosse l'unica ragione della nostra vita? Non è forse giunto il momento in cui possiamo, finalmente, cominciare a dare un senso a tutta questa ricchezza accumulata, in una prospettiva di impiego che si riveli utile alla nostra vita e al benessere della più ampia comunità a cui apparteniamo?

Se vogliamo davvero migliorarci in senso democratico, etico e civile, dovremmo riuscire a superare al più presto questa che, secondo me, costituisce una forma di follia collettiva e di percorso irreversibile verso l’auto-annientamento. A partire dal nostro Paese e dall’idea stessa d’Europa. In Europa ha molto più potere la Banca Centrale Europea, che è diretta emanazione dei poteri economico-finanziari internazionali, che il Consiglio d’Europa, che è lo strumento fondamentale della nostra democrazia. Il punto di vista, immediatamente vincolante per tutti, del Presidente della BCE vale molto di più di quello delle centinaia dei nostri rappresentanti parlamentari, nonché delle stesse politiche di governo nazionale. Se per questa istituzione e per l’uomo che la rappresenta, il controllo dell’inflazione rappresenta un traguardo ossessivo, anche quando questa è palesemente indotta dalle speculazioni sui prezzi di greggio e grano, non avrà alcuna importanza che i consumi interni crollino (inclusi quelli primari di pane e pasta), che la gente non riesca più a pagare i mutui, che le aziende soffrano il calo di competitività all’esportazione, che soltanto alcune grandi aziende ne traggano beneficio e si arricchiscano in modo indegno. Ma a che cosa ci potrà servire una valuta forte se, poi, la nostra economia non varrà più nulla?

In un recente rapporto trimestrale, il Commissario Europeo sull’economia (una di quelle istituzioni che valgono meno della BCE), ha scritto: “L'indebolimento del ciclo virtuoso del commercio mondiale e l'apprezzamento dell'euro stanno pesando sulle esportazioni dell'eurozona”. Certo, una valuta forte può compensare il peso delle nostre importazioni (le paghiamo meno, dato che le transazioni avvengono in dollari). Eppure, in questo preciso momento storico, non è evidente a tutti che gli unici ad avvantaggiarsi di tale situazione sono soltanto gli speculatori e i banchieri, i quali, quando le loro banche hanno preso ad affondare, senza alcuno scrupolo hanno scaricato sulla collettività gli effetti negativi delle loro scelte? Non ci vorrebbero altre forme di intervento meno ottuse, più autenticamente liberali e, quindi, più attente alle reali esigenze dei cittadini e delle piccole e medie imprese? Non è questa una politica che, alla fine, toglie ai meno abbianti per donare ai ricchi e, peggio ancora, agli speculatori senza alcuna morale?

Per superare questa follia, dobbiamo trovare un modo diverso di misurare il progresso civile di ogni società, che permetta di superare le suggestioni economiche di una visione politica così gretta, che enfatizzi la centralità dell’individuo nelle scelte di ogni genere e che ci aiuti, infine, a stilare una differente graduatoria di merito, fondandola sui valori che alla fine contano e che rendono la vita degna di essere vissuta. Solo in questo modo verrebbe chiaramente allo scoperto l’inadeguatezza e l’ipocrisia di Paesi come la Cina, ma anche la nostra stessa complicità, rispetto a scelte economiche che, nel nome di un PIL sovrano e riservato a pochi, dimostrano disprezzo per i diritti e la dignità dell’uomo.

Allora, così come l’ISTAT elabora la statistica sulle variazioni di prezzo, con un paniere concordato tra gli stati membri della UE, analogamente ciascun Paese dovrebbe elaborare un proprio indicatore, che sintetizzi in modo omogeneo e sulla base di pesi autenticamente rappresentativi delle priorità individuali, la qualità della vita in termini di: sicurezza; diritto alla salute; diritto allo studio; diritto all’infanzia; speranza di vita; libertà di opinione; ambiente; quantità e qualità del tempo libero; reddito disponibile; disoccupazione; mobilità; tempi della burocrazia; ecc. Solo attraverso un indicatore di questo genere potranno essere colte le nostre aspettative e la nostra dignità di individui. Solo in tal modo potranno realizzarsi una politica ed un dibattito, che siano finalmente a misura di una vita degna di essere vissuta.

domenica 6 aprile 2008

Uguaglianza, libertà e liberismo economico

Una società democratica, che intende affermarsi sul piano della continuità storica e su quello dell’etica civile, deve sviluppare la propria azione e focalizzarsi intorno ai principi dell’uguaglianza e della libertà individuale. Se ciò non avviene, per incapacità di assicurare entrambi i valori, la società prenderà a disgregarsi sotto la spinta avversa degli stessi cittadini, che la boicotteranno o la abbandoneranno al suo destino.
È davvero irrealistico pensare che i due valori appena richiamati possano essere considerati disgiunti o perseguiti con enfasi differenti. Uguaglianza e libertà sono, infatti, i due aspetti peculiari di un fenomeno unitario: la sovranità democratica. Anzi il primo valore, quello dell’uguaglianza, è l’essenziale prerequisito del secondo, poiché in ogni società potrà esserci vera libertà a patto che si affermi anche la parità tra gli individui, nell’esercizio dei diritti e nei correlati doveri sociali. Uguaglianza significa, relativamente a ciascuno, possibilità di esercitare i propri diritti e sviluppare la propria personalità con eguale dignità, senza il pericolo di alcuna discriminazione pregiudiziale. Vuol dire, anche, neutralità delle istituzioni rispetto all’esercizio dei doveri, anche in questo caso, senza che sussistano forme di distinzione sociale o di esclusione basate su presupposti di privilegio o di imprescindibile appartenenza identitaria.
Il principio dell’uguaglianza che qui si afferma, non deve essere tuttavia confuso con quello dell’omologazione, che è processo di annullamento della personalità e della dignità umana, capace di ridurre gli individui in servi di un’identità “altra” o comunque imposta. Chi crede nella democrazia e, contestualmente, nella libertà dell’individuo rifiuta, a priori, una simile impostazione e ciò al di là delle sovrastrutture ideologiche con cui queste vere e proprie aberrazioni sociali usano spesso mascherarsi.

Perseguire con determinazione il traguardo dell’uguaglianza tra gli individui sul piano sociale e sostanziale, ossia, ben oltre la mera dichiarazione d’intento costituzionale, può anche contribuire a ridurre sulla collettività il peso e l’effetto di spinte anarchiche e/o utilitaristiche, al cui richiamo, più o meno inconsapevolmente, gli individui si espongono nella loro ricerca di un’incontrastata libertà. All’interno di ogni società, l’individuo si plasma ed esplica le proprie azioni volitive nell’ambito di una fitta rete di convenzioni sociali e di altrettanto consistenti limitazioni giuridiche, entrambe foriere di interferenze e perturbazioni sulla sua personalissima visione del mondo. D’altro canto, quelle stesse convenzioni e limitazioni, che pongono un limite alla sua autonomia, frenano anche le possibili ingerenze degli altri e si rendono con ciò strumentali alla condizione egemonica della sua visione. Una società che si sbilancia favorendo la creazione di gruppi dominanti è il terreno fertile nel quale il principio dell’uguaglianza si svuota del proprio contenuto sostanziale, assumendone uno di mera formalità e trascinandosi dietro il principio stesso della libertà individuale. Ciò che nelle premesse costituiva un diritto di tutti diventa, quindi, una condizione di puro privilegio: un lusso da riservare ad una ristretta elite.
È questo il segno tangibile della nostra democrazia malata, che è schiacciata dal peso del conflitto di interessi, da un liberismo di sola facciata, da un sistema dell’informazione rigidamente controllato, da condizioni di indigenza diffusa e di bassa cultura e da una laicità di bassissimo profilo morale, perché schiava della ricerca di un consenso facile e a basso costo. In tali circostanze, come ci insegna la storia, non soltanto quella recente, attecchisce facilmente la demagogia, il populismo e, nei casi più estremi, la dittatura, venendo meno progressivamente, fino a sparire del tutto, l’uguaglianza e la libertà degli individui.

Alexis De Toqueville, che non era certo un “comunista”, diceva a proposito dell’America del suo tempo (metà dell’ottocento): "Se cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una folla smisurata di esseri simili ed eguali che volteggiano su se stessi per procurarsi piccoli e meschini piaceri di cui si pasce la loro anima… Al di sopra di questa folla, vedo innalzarsi un immenso potere tutelare, che si occupa da solo di assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare sulle loro sorti. È assoluto, minuzioso, metodico, previdente, e persino mite. Assomiglierebbe alla potestà paterna, se avesse per scopo, come quella, di preparare gli uomini alla virilità. Ma, al contrario, non cerca che di tenerli in un'infanzia perpetua. Lavora volentieri alla felicità dei cittadini ma vuole esserne l'unico agente, l'unico arbitro. Provvede alla loro sicurezza, ai loro bisogni, facilita i loro piaceri, dirige gli affari, le industrie, regola le successioni, divide le eredità: non toglierebbe forse loro anche la forza di vivere e di pensare?". Su tale linea di pensiero Tocqueville elabora l’idea di una “tirannide della maggioranza”, per segnalarci i pericoli latenti nelle nostre democrazie: “L’opinione comune ha presso i popoli che vivono in democrazia un potere infinitamente più grande che presso tutti gli altri. Nei tempi di eguaglianza, infatti, a causa della reciproca somiglianza, perché tutti sono uguali, gli uomini hanno una fiducia quasi illimitata nell'opinione pubblica e non sembra loro verosimile che la verità non si trovi dalla parte della maggioranza". Presso i popoli democratici la pubblica opinione ha, dunque, una singolare potenza poiché diffonde le sue credenze imponendole e facendole penetrare nelle anime per mezzo di una immensa forza di persuasione: lo spirito di tutti sull'intelligenza di ognuno. La democrazia stessa può essere, quindi, veicolo e volano di conformismo e omologazione, valori antitetici a quelli da cui siamo partiti: uguaglianza e libertà. Ma questa democrazia può essere anche il mezzo con cui si modellano e si controllano le maggioranze, il terreno fertile nel quale i più abili demagoghi possono costruire la propria sorte, facendosi interpreti unici delle masse e delle loro passioni. Su questo punto, mi piace riportare testualmente ciò che ebbe a dire nel 1993 il filosofo ed epistemologo Karl Popper, per denunciare il potere della televisione nella costruzione dell’opinione pubblica: "… tutti quelli che invocano la libertà, l'indipendenza o il liberalismo per dire che non si possono introdurre delle limitazioni in un potere pericoloso come quello della televisione, sono degli idioti".

Se le considerazioni svolte sono valide e degne di attenzione, qual è la migliore strategia da adottare per scongiurare l’insorgenza di fenomeni così perversi e perniciosi per i principi di uguaglianza e libertà? Quali devono essere i punti su cui l’azione politica deve orientarsi e convergere, per assicurare la piena uguaglianza e, quindi, la vera libertà dei cittadini?

In primo luogo, la società, lo Stato e la classe politica che li rappresenta dovrebbero davvero impegnarsi per affrancare, finalmente, gli individui dai vincoli dell’indigenza e del bisogno. Infatti, non vi può essere libertà e uguaglianza se a ciascun individuo non è garantita la possibilità di soddisfare le proprie necessità elementari o se, per il soddisfacimento di questi bisogni, l’individuo non è libero di avviare una propria iniziativa imprenditoriale o deve rivolgersi a circuiti loschi di intermediazione politica, offrendosi in cambio, a volte mortificando la sua stessa dignità personale.
Nel 1931 Luigi Einaudi ebbe a dire come il compito della scienza economica non fosse quello di stabilire la graduatoria dei fini sociali, ma di ricercare: “… la soluzione economicamente più conveniente per raggiungere un dato fine.” Nella nostra società, spesso, il fine da realizzare “…non è un fine economico, ma politico morale religioso; ma la soluzione più conveniente non è sempre quella liberistica del lasciar fare e del lasciar passare, potendo invece essere, caso per caso, di sorveglianza o diretto esercizio statale o comunale o altro ancora... Di fronte ai problemi concreti, l'economista non può essere mai né liberista né interventista, né socialista ad ogni costo". Sempre Luigi Einaudi, nel 1948 scrisse: “… la libertà economica è la condizione necessaria della libertà politica... Vi sono due estremi nei quali sembra difficile concepire l'esercizio effettivo, pratico, della libertà: all'un estremo tutta la ricchezza essendo posseduta da un solo colossale monopolista privato; ed all'altro estremo dalla collettività. I due estremi si chiamano comunemente monopolismo e collettivismo: ed ambedue sono fatali alla libertà”.
Questo è il liberismo che a me piace. Un liberismo che nega, in modo altrettanto deciso e radicale, la possibile presenza di posizioni dominanti, che siano tali da alterare il libero gioco delle forze e la libertà di azione degli attori presenti nel mercato. È un liberismo che, implicitamente, rifiuta la spietatezza tipica del capitalismo selvaggio, che travolge tutto e tutti nella prospettiva unica dell’egoismo e del profitto economico. È un liberismo che, implicitamente, contrasta la presenza nella società di gruppi di influenza dominante, all’interno dei delicati meccanismi di formazione del pensiero e dell’opinione pubblica. È un liberismo che considera utile ed anzi necessaria la presenza dello Stato, laddove debbano esserci regole di comportamento, rifiutando ogni genere di doppiezza da parte dell'individuo: da un lato il rifiuto di ogni ingerenza statale; dall’altro la pretesa di un intervento quando torna a vantaggio del proprio interesse individuale o il richiamo all'ordine e alla legge non appena gli interessi personali vengono messi in discussione.

In questa prospettiva, quindi, è condivisibile l’idea che lo Stato si debba tirare indietro dalla tentazione di condurre in proprio o indirettamente iniziative imprenditoriali, ma lo è altrettanto quella di uno Stato che, pur di garantire la dignità e la libertà economica dei propri cittadini, stabilisce regole e limiti ed interviene fornendo all’individuo e per periodo di tempo limitato un salario minimo di sussistenza. Non mi sembra che, su quest’ultimo aspetto, le democrazie nord europee, che da anni applicano lo strumento del salario minimo, possano essere considerate illiberali o accusate di produrre distorsioni al loro libero mercato. Mi sembra, piuttosto, ipocrita sostenere che da noi, grazie all’assenza di uno strumento simile, si sia affermata un’economia davvero liberale. Se per un momento entriamo nel merito dei tanti strumenti di assistenzialismo esistenti (camuffati da corsi di formazione, Lavori Socialmente Utili, cassa integrazione, ecc.), ci rendiamo immediatamente conto che la questione del salario minimo è assolutamente mal posta, perché tale fattispecie, nei fatti, sussiste anche da noi. Il problema è che da noi non funziona o è ipocritamente chiamato in modo diverso, dato che è mascherato da qualcos’altro, al fine di essere comodamente veicolato ed intermediato attraverso appendici (spesso di natura privata), che sono poi direttamente finanziate dallo Stato. Che dire, su questo aspetto, dei criteri di gestione privata di buona parte dei servizi pubblici fondamentali (nettezza urbana; acqua; sanità; ecc.)? A quale forma di liberismo si sono ispirate, visto che gli imprenditori risultano di fatto immuni da ogni regime di concorrenza e da ogni pericolo di eventuale fallimento, essendo in questo garantiti dalla possibilità di ribaltare, con immediatezza e sulla collettività, ogni loro perdita?

Ma il contributo, dal mio punto di vista, più interessante che Luigi Einaudi ci ha dato attraverso il suo pensiero è l’idea che le questioni di ordine sociale non possono essere ridotte ad una mera questione o formalità di natura economica. In ambito sociale esistono altri fini da perseguire, per assicurare uguaglianza e libertà, che meritano un metro ed una valutazione diversa da quella economico-finanziaria. Su tali aspetti, estremamente complessi, che non sono ovviamente citati dall’economista liberista, ma che a mio avviso sono inerenti al diritto dell’individuo alla sicurezza, alla salute, allo studio, allo svago, alla ricerca, all’espressione delle proprie opinioni e convinzioni religiose e, simmetricamente, alla laicità, mi propongo di tornare al più presto in un prossimo post.