Una società democratica, che intende affermarsi sul piano della continuità storica e su quello dell’etica civile, deve sviluppare la propria azione e focalizzarsi intorno ai principi dell’uguaglianza e della libertà individuale. Se ciò non avviene, per incapacità di assicurare entrambi i valori, la società prenderà a disgregarsi sotto la spinta avversa degli stessi cittadini, che la boicotteranno o la abbandoneranno al suo destino.
È davvero irrealistico pensare che i due valori appena richiamati possano essere considerati disgiunti o perseguiti con enfasi differenti. Uguaglianza e libertà sono, infatti, i due aspetti peculiari di un fenomeno unitario: la sovranità democratica. Anzi il primo valore, quello dell’uguaglianza, è l’essenziale prerequisito del secondo, poiché in ogni società potrà esserci vera libertà a patto che si affermi anche la parità tra gli individui, nell’esercizio dei diritti e nei correlati doveri sociali. Uguaglianza significa, relativamente a ciascuno, possibilità di esercitare i propri diritti e sviluppare la propria personalità con eguale dignità, senza il pericolo di alcuna discriminazione pregiudiziale. Vuol dire, anche, neutralità delle istituzioni rispetto all’esercizio dei doveri, anche in questo caso, senza che sussistano forme di distinzione sociale o di esclusione basate su presupposti di privilegio o di imprescindibile appartenenza identitaria.
Il principio dell’uguaglianza che qui si afferma, non deve essere tuttavia confuso con quello dell’omologazione, che è processo di annullamento della personalità e della dignità umana, capace di ridurre gli individui in servi di un’identità “altra” o comunque imposta. Chi crede nella democrazia e, contestualmente, nella libertà dell’individuo rifiuta, a priori, una simile impostazione e ciò al di là delle sovrastrutture ideologiche con cui queste vere e proprie aberrazioni sociali usano spesso mascherarsi.
Perseguire con determinazione il traguardo dell’uguaglianza tra gli individui sul piano sociale e sostanziale, ossia, ben oltre la mera dichiarazione d’intento costituzionale, può anche contribuire a ridurre sulla collettività il peso e l’effetto di spinte anarchiche e/o utilitaristiche, al cui richiamo, più o meno inconsapevolmente, gli individui si espongono nella loro ricerca di un’incontrastata libertà. All’interno di ogni società, l’individuo si plasma ed esplica le proprie azioni volitive nell’ambito di una fitta rete di convenzioni sociali e di altrettanto consistenti limitazioni giuridiche, entrambe foriere di interferenze e perturbazioni sulla sua personalissima visione del mondo. D’altro canto, quelle stesse convenzioni e limitazioni, che pongono un limite alla sua autonomia, frenano anche le possibili ingerenze degli altri e si rendono con ciò strumentali alla condizione egemonica della sua visione. Una società che si sbilancia favorendo la creazione di gruppi dominanti è il terreno fertile nel quale il principio dell’uguaglianza si svuota del proprio contenuto sostanziale, assumendone uno di mera formalità e trascinandosi dietro il principio stesso della libertà individuale. Ciò che nelle premesse costituiva un diritto di tutti diventa, quindi, una condizione di puro privilegio: un lusso da riservare ad una ristretta elite.
È questo il segno tangibile della nostra democrazia malata, che è schiacciata dal peso del conflitto di interessi, da un liberismo di sola facciata, da un sistema dell’informazione rigidamente controllato, da condizioni di indigenza diffusa e di bassa cultura e da una laicità di bassissimo profilo morale, perché schiava della ricerca di un consenso facile e a basso costo. In tali circostanze, come ci insegna la storia, non soltanto quella recente, attecchisce facilmente la demagogia, il populismo e, nei casi più estremi, la dittatura, venendo meno progressivamente, fino a sparire del tutto, l’uguaglianza e la libertà degli individui.
Alexis De Toqueville, che non era certo un “comunista”, diceva a proposito dell’America del suo tempo (metà dell’ottocento): "Se cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una folla smisurata di esseri simili ed eguali che volteggiano su se stessi per procurarsi piccoli e meschini piaceri di cui si pasce la loro anima… Al di sopra di questa folla, vedo innalzarsi un immenso potere tutelare, che si occupa da solo di assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare sulle loro sorti. È assoluto, minuzioso, metodico, previdente, e persino mite. Assomiglierebbe alla potestà paterna, se avesse per scopo, come quella, di preparare gli uomini alla virilità. Ma, al contrario, non cerca che di tenerli in un'infanzia perpetua. Lavora volentieri alla felicità dei cittadini ma vuole esserne l'unico agente, l'unico arbitro. Provvede alla loro sicurezza, ai loro bisogni, facilita i loro piaceri, dirige gli affari, le industrie, regola le successioni, divide le eredità: non toglierebbe forse loro anche la forza di vivere e di pensare?". Su tale linea di pensiero Tocqueville elabora l’idea di una “tirannide della maggioranza”, per segnalarci i pericoli latenti nelle nostre democrazie: “L’opinione comune ha presso i popoli che vivono in democrazia un potere infinitamente più grande che presso tutti gli altri. Nei tempi di eguaglianza, infatti, a causa della reciproca somiglianza, perché tutti sono uguali, gli uomini hanno una fiducia quasi illimitata nell'opinione pubblica e non sembra loro verosimile che la verità non si trovi dalla parte della maggioranza". Presso i popoli democratici la pubblica opinione ha, dunque, una singolare potenza poiché diffonde le sue credenze imponendole e facendole penetrare nelle anime per mezzo di una immensa forza di persuasione: lo spirito di tutti sull'intelligenza di ognuno. La democrazia stessa può essere, quindi, veicolo e volano di conformismo e omologazione, valori antitetici a quelli da cui siamo partiti: uguaglianza e libertà. Ma questa democrazia può essere anche il mezzo con cui si modellano e si controllano le maggioranze, il terreno fertile nel quale i più abili demagoghi possono costruire la propria sorte, facendosi interpreti unici delle masse e delle loro passioni. Su questo punto, mi piace riportare testualmente ciò che ebbe a dire nel 1993 il filosofo ed epistemologo Karl Popper, per denunciare il potere della televisione nella costruzione dell’opinione pubblica: "… tutti quelli che invocano la libertà, l'indipendenza o il liberalismo per dire che non si possono introdurre delle limitazioni in un potere pericoloso come quello della televisione, sono degli idioti".
Se le considerazioni svolte sono valide e degne di attenzione, qual è la migliore strategia da adottare per scongiurare l’insorgenza di fenomeni così perversi e perniciosi per i principi di uguaglianza e libertà? Quali devono essere i punti su cui l’azione politica deve orientarsi e convergere, per assicurare la piena uguaglianza e, quindi, la vera libertà dei cittadini?
In primo luogo, la società, lo Stato e la classe politica che li rappresenta dovrebbero davvero impegnarsi per affrancare, finalmente, gli individui dai vincoli dell’indigenza e del bisogno. Infatti, non vi può essere libertà e uguaglianza se a ciascun individuo non è garantita la possibilità di soddisfare le proprie necessità elementari o se, per il soddisfacimento di questi bisogni, l’individuo non è libero di avviare una propria iniziativa imprenditoriale o deve rivolgersi a circuiti loschi di intermediazione politica, offrendosi in cambio, a volte mortificando la sua stessa dignità personale.
Nel 1931 Luigi Einaudi ebbe a dire come il compito della scienza economica non fosse quello di stabilire la graduatoria dei fini sociali, ma di ricercare: “… la soluzione economicamente più conveniente per raggiungere un dato fine.” Nella nostra società, spesso, il fine da realizzare “…non è un fine economico, ma politico morale religioso; ma la soluzione più conveniente non è sempre quella liberistica del lasciar fare e del lasciar passare, potendo invece essere, caso per caso, di sorveglianza o diretto esercizio statale o comunale o altro ancora... Di fronte ai problemi concreti, l'economista non può essere mai né liberista né interventista, né socialista ad ogni costo". Sempre Luigi Einaudi, nel 1948 scrisse: “… la libertà economica è la condizione necessaria della libertà politica... Vi sono due estremi nei quali sembra difficile concepire l'esercizio effettivo, pratico, della libertà: all'un estremo tutta la ricchezza essendo posseduta da un solo colossale monopolista privato; ed all'altro estremo dalla collettività. I due estremi si chiamano comunemente monopolismo e collettivismo: ed ambedue sono fatali alla libertà”.
Questo è il liberismo che a me piace. Un liberismo che nega, in modo altrettanto deciso e radicale, la possibile presenza di posizioni dominanti, che siano tali da alterare il libero gioco delle forze e la libertà di azione degli attori presenti nel mercato. È un liberismo che, implicitamente, rifiuta la spietatezza tipica del capitalismo selvaggio, che travolge tutto e tutti nella prospettiva unica dell’egoismo e del profitto economico. È un liberismo che, implicitamente, contrasta la presenza nella società di gruppi di influenza dominante, all’interno dei delicati meccanismi di formazione del pensiero e dell’opinione pubblica. È un liberismo che considera utile ed anzi necessaria la presenza dello Stato, laddove debbano esserci regole di comportamento, rifiutando ogni genere di doppiezza da parte dell'individuo: da un lato il rifiuto di ogni ingerenza statale; dall’altro la pretesa di un intervento quando torna a vantaggio del proprio interesse individuale o il richiamo all'ordine e alla legge non appena gli interessi personali vengono messi in discussione.
In questa prospettiva, quindi, è condivisibile l’idea che lo Stato si debba tirare indietro dalla tentazione di condurre in proprio o indirettamente iniziative imprenditoriali, ma lo è altrettanto quella di uno Stato che, pur di garantire la dignità e la libertà economica dei propri cittadini, stabilisce regole e limiti ed interviene fornendo all’individuo e per periodo di tempo limitato un salario minimo di sussistenza. Non mi sembra che, su quest’ultimo aspetto, le democrazie nord europee, che da anni applicano lo strumento del salario minimo, possano essere considerate illiberali o accusate di produrre distorsioni al loro libero mercato. Mi sembra, piuttosto, ipocrita sostenere che da noi, grazie all’assenza di uno strumento simile, si sia affermata un’economia davvero liberale. Se per un momento entriamo nel merito dei tanti strumenti di assistenzialismo esistenti (camuffati da corsi di formazione, Lavori Socialmente Utili, cassa integrazione, ecc.), ci rendiamo immediatamente conto che la questione del salario minimo è assolutamente mal posta, perché tale fattispecie, nei fatti, sussiste anche da noi. Il problema è che da noi non funziona o è ipocritamente chiamato in modo diverso, dato che è mascherato da qualcos’altro, al fine di essere comodamente veicolato ed intermediato attraverso appendici (spesso di natura privata), che sono poi direttamente finanziate dallo Stato. Che dire, su questo aspetto, dei criteri di gestione privata di buona parte dei servizi pubblici fondamentali (nettezza urbana; acqua; sanità; ecc.)? A quale forma di liberismo si sono ispirate, visto che gli imprenditori risultano di fatto immuni da ogni regime di concorrenza e da ogni pericolo di eventuale fallimento, essendo in questo garantiti dalla possibilità di ribaltare, con immediatezza e sulla collettività, ogni loro perdita?
Ma il contributo, dal mio punto di vista, più interessante che Luigi Einaudi ci ha dato attraverso il suo pensiero è l’idea che le questioni di ordine sociale non possono essere ridotte ad una mera questione o formalità di natura economica. In ambito sociale esistono altri fini da perseguire, per assicurare uguaglianza e libertà, che meritano un metro ed una valutazione diversa da quella economico-finanziaria. Su tali aspetti, estremamente complessi, che non sono ovviamente citati dall’economista liberista, ma che a mio avviso sono inerenti al diritto dell’individuo alla sicurezza, alla salute, allo studio, allo svago, alla ricerca, all’espressione delle proprie opinioni e convinzioni religiose e, simmetricamente, alla laicità, mi propongo di tornare al più presto in un prossimo post.
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domenica 6 aprile 2008
Uguaglianza, libertà e liberismo economico
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