Il discorso di Robert Kennedy (18 marzo 1968, presso l’Università del Kansas, pochi giorni prima del suo barbaro assassinio) è uno dei primi post che ho voluto inserire nel blog. Ho ritenuto di doverlo fare per testimoniare, anch’io e nel mio piccolo, la sua grandezza e per rimarcare la modernità e la lucidità del suo pensiero. Il discorso di Robert Kennedy ci invita a riflettere su gran parte delle tematiche sociali che, ancora oggi, la nostra società non è stata in grado di affrontare e risolvere: l’inquinamento ambientale; il diritto alla salute; la sicurezza stradale e quella personale; la televisione e la violenza che questa ci propina continuamente; le armi, la guerra e i modi di affrontare le crisi internazionali; la famiglia ed il diritto di ognuno a svagarsi e a godere del proprio tempo libero; l’imparzialità della giustizia; l’onesta della pubblica amministrazione. È un pensiero moderno e lucido perché non si limita ad una sterile o generica invettiva, ma perché coglie nelle contraddizioni e nelle miopie del PIL (Prodotto Interno Lordo), le cause principali del degrado morale e civile in cui versa la nostra civiltà. Nessuna società, ci dice Robert Kennedy, riferendosi all’America dei suoi anni, può giudicarsi civile e progredita sulla base esclusiva del PIL, ovvero sul volume di beni e servizi materiali che questa società dimostra di saper produrre, accumulare e consumare. Il PIL misura tutto tranne quei valori che rendono la vita veramente degna di essere vissuta.
Eppure, nonostante le questioni etiche poste da Robert Kennedy siano oramai diventate temi centrali in molti dibattiti sullo sviluppo, nessuna forza politica o sociale ha sin qui dimostrato il coraggio di voler ribaltare il ruolo, pervasivo, delle priorità economiche e scardinare, quindi, la logica del PIL e delle sue principali leve di gestione (controllo di inflazione e deficit, politica monetaria). Per quale ragione?
Invero, la nostra società ha attribuito al consumismo e alla ricchezza materiale significati equivalenti a quello di benessere ed il sistema economico ha finito per l’essere strutturato sull'idea che bisogna produrre e consumare sempre di più per essere felici. Siamo figli dell’euforia del dopoguerra, della ricostruzione e del boom economico. Nonostante l’austerity (quando Tony Santagata cantava: “se non vuoi andare a piedi prendi l’asino”), gli shock petroliferi e le crisi internazionali, abbiamo incessantemente perseguito la rincorsa del benessere materiale, in una progressione sempre più squalificante: necessario (fino al 1960); utile (1970); superfluo (1980); effimero (1990); inutile (oggi); ? (domani). Il paradigma della nostra epoca può sintetizzarsi nello slogan: “Chi più ha, meglio sta” e, se è pur vero che “anche i ricchi piangono”, è molto meglio “avere che essere”. Quindi, a parte Robert Kennedy, che era senz’altro un illuminato e che quasi certamente è stato assassinato per tale ragione e per ciò che ebbe il coraggio di dire, in tutti i paesi occidentali si è cavalcata l’onda del consenso politico a suon di programmi di accumulazione materiale e di prospettive di consumo crescente. Tale concezione di futuro e di dignità della vita si è poi ancor più radicata nel nostro sistema, dopo che la visione sociale alternativa, fino ad allora incarnata dall’Unione Sovietica, ha raggiunto miseramente il capolinea della storia, trascinando con sé le illusioni di molti. All’interno di questo scenario e di tali premesse, condivise da quasi tutti e perciò vincenti, il PIL ed la visione liberista distorta che vi sta alla base non potevano che essere le basi di ogni programma politico.
Tuttavia, per dirla con Robert Kennedy e da cittadini del nostro tempo e da osservatori degli eventi internazionali: che c’entra il PIL con la qualità della vita, presente e futura; con il benessere degli individui di oggi e di domani; con il diritto di ognuno all’uguaglianza e, quindi, alla libertà? La Cina, che in questo momento registra il più alto tasso di crescita in termini di PIL, può per questo definirsi: il luogo ideale in cui tutti noi vorremmo andare a vivere; dove i cittadini stanno bene e sono autenticamente liberi; dove le generazioni che verranno troveranno un posto senz’altro migliore; dove la vita di ognuno ha ed avrà pari dignità con quella degli altri? Se nutriamo e me lo auguro, qualche dubbio, allora dovremmo cominciare a chiederci: gli individui che cosa desiderano, in tutto il mondo ed in ogni tempo, oltre la frontiera dei loro bisogni materiali? Ma davvero il PIL basta, da solo, a misurare le istanze e le aspettative di ognuno di noi? Ma è davvero così necessario continuare ad accumulare ricchezza materiale, in modo ossessivo e quasi che l'accumulazione di beni fosse l'unica ragione della nostra vita? Non è forse giunto il momento in cui possiamo, finalmente, cominciare a dare un senso a tutta questa ricchezza accumulata, in una prospettiva di impiego che si riveli utile alla nostra vita e al benessere della più ampia comunità a cui apparteniamo?
Se vogliamo davvero migliorarci in senso democratico, etico e civile, dovremmo riuscire a superare al più presto questa che, secondo me, costituisce una forma di follia collettiva e di percorso irreversibile verso l’auto-annientamento. A partire dal nostro Paese e dall’idea stessa d’Europa. In Europa ha molto più potere la Banca Centrale Europea, che è diretta emanazione dei poteri economico-finanziari internazionali, che il Consiglio d’Europa, che è lo strumento fondamentale della nostra democrazia. Il punto di vista, immediatamente vincolante per tutti, del Presidente della BCE vale molto di più di quello delle centinaia dei nostri rappresentanti parlamentari, nonché delle stesse politiche di governo nazionale. Se per questa istituzione e per l’uomo che la rappresenta, il controllo dell’inflazione rappresenta un traguardo ossessivo, anche quando questa è palesemente indotta dalle speculazioni sui prezzi di greggio e grano, non avrà alcuna importanza che i consumi interni crollino (inclusi quelli primari di pane e pasta), che la gente non riesca più a pagare i mutui, che le aziende soffrano il calo di competitività all’esportazione, che soltanto alcune grandi aziende ne traggano beneficio e si arricchiscano in modo indegno. Ma a che cosa ci potrà servire una valuta forte se, poi, la nostra economia non varrà più nulla?
In un recente rapporto trimestrale, il Commissario Europeo sull’economia (una di quelle istituzioni che valgono meno della BCE), ha scritto: “L'indebolimento del ciclo virtuoso del commercio mondiale e l'apprezzamento dell'euro stanno pesando sulle esportazioni dell'eurozona”. Certo, una valuta forte può compensare il peso delle nostre importazioni (le paghiamo meno, dato che le transazioni avvengono in dollari). Eppure, in questo preciso momento storico, non è evidente a tutti che gli unici ad avvantaggiarsi di tale situazione sono soltanto gli speculatori e i banchieri, i quali, quando le loro banche hanno preso ad affondare, senza alcuno scrupolo hanno scaricato sulla collettività gli effetti negativi delle loro scelte? Non ci vorrebbero altre forme di intervento meno ottuse, più autenticamente liberali e, quindi, più attente alle reali esigenze dei cittadini e delle piccole e medie imprese? Non è questa una politica che, alla fine, toglie ai meno abbianti per donare ai ricchi e, peggio ancora, agli speculatori senza alcuna morale?
Per superare questa follia, dobbiamo trovare un modo diverso di misurare il progresso civile di ogni società, che permetta di superare le suggestioni economiche di una visione politica così gretta, che enfatizzi la centralità dell’individuo nelle scelte di ogni genere e che ci aiuti, infine, a stilare una differente graduatoria di merito, fondandola sui valori che alla fine contano e che rendono la vita degna di essere vissuta. Solo in questo modo verrebbe chiaramente allo scoperto l’inadeguatezza e l’ipocrisia di Paesi come la Cina, ma anche la nostra stessa complicità, rispetto a scelte economiche che, nel nome di un PIL sovrano e riservato a pochi, dimostrano disprezzo per i diritti e la dignità dell’uomo.
Allora, così come l’ISTAT elabora la statistica sulle variazioni di prezzo, con un paniere concordato tra gli stati membri della UE, analogamente ciascun Paese dovrebbe elaborare un proprio indicatore, che sintetizzi in modo omogeneo e sulla base di pesi autenticamente rappresentativi delle priorità individuali, la qualità della vita in termini di: sicurezza; diritto alla salute; diritto allo studio; diritto all’infanzia; speranza di vita; libertà di opinione; ambiente; quantità e qualità del tempo libero; reddito disponibile; disoccupazione; mobilità; tempi della burocrazia; ecc. Solo attraverso un indicatore di questo genere potranno essere colte le nostre aspettative e la nostra dignità di individui. Solo in tal modo potranno realizzarsi una politica ed un dibattito, che siano finalmente a misura di una vita degna di essere vissuta.
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domenica 13 aprile 2008
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