Il vuoto di partecipazione creatosi all’interno dei processi di rappresentatività democratica, dovuto, come cercherò di spiegare, alla sostanziale latitanza dei cittadini rispetto al “fare politica”, ha determinato la fenomenologia del “saccu leggiu”.
La politica è sempre più intesa come affare sporco e in ogni caso “privato" dei partiti o, peggio ancora, dei loro leader. È una specie di mestiere al quale si accede per cooptazione o tramite una sorta di rituale: le elezioni. È un traguardo personale di affermazione e di riscatto sociale, che assicura vantaggi e privilegi a chi ne beneficia, oltre che visibilità, prestigio e la quasi assoluta impunità per ogni ed eventuale malefatta. È un contesto nel quale i migliori non sono necessariamente i più capaci, anzi, spesso sono soltanto i più furbi, quelli che sanno osare di più in termini di trasformismo, opportunismo o arrivismo. Purtroppo per noi, a queste caratteristiche spesso corrispondono anche i personaggi ed i rappresentanti più disonesti.
Ma chi è il “saccu leggiu” in politica e, soprattutto, i suoi comportamenti e i suoi modi di essere, a quali conclusioni ci possono condurre?
Vorrei partire dicendo che, se fosse stato davvero “leggiu”, al primo soffio di vento il “saccu” sarebbe volato via già da tempo. Invece, le intemperie non lo scalfiscono affatto e forse perché, sino ad oggi, nessuno ha mai voluto soffiare seriamente contro di lui.
Da alcune parti si dice che il “saccu leggiu” è un fenomeno anacronistico, destinato ad essere spazzato via dall’incalzante rinnovamento, già in atto, presso la nostra sempre più informata ed acculturata società civile. Ad oggi, forse anche per la contumacia di molti media ufficiali, pare che il “saccu leggiu” non solo continui a resistere, ma che riesca perfino a trasformarsi con prontezza, a moltiplicarsi e a tramandare nel tempo il proprio patrimonio “genetico”, di padre in figlio, in un processo di “evoluzione della specie” del tutto simile a quello biologico. Il “saccu leggiu” gode, infatti, di straordinarie capacità metaboliche, che gli permettono di lasciare intatta la propria identità strutturale e di riassorbire qualunque perturbazione esterna.
Da questi eventi il “saccu leggiu” dimostra pure di saper derivare nuova linfa vitale e di riuscire a ricomporre quel miscuglio casuale di idee, punti di vista e valori morali, dei quali, per natura e vocazione, appare sempre fortemente intriso. Rivelatrice, al riguardo, è la terminologia a cui fa ordinariamente ricorso, sempre attuale e coerente con il bisogno di evocare e trasfondere nella società in cui vive, nuove speranze, nuovi ottimismi, insieme a vecchi allarmismi o ad ostacoli e minacce che, ineluttabilmente, si frappongono a quella visione di progresso da lui tanto auspicata. Riesce, perfino, a riportare dalla sua parte e ad annullare, banalizzandone i contenuti evocativi, i neologismi che qualcuno osa coniare per denigrarlo. Si pensi alla parola “casta”. Oggi se ne parla a tal punto che nessuno ci fa più caso. Ma l’aspetto più paradossale è che ad utilizzare il termine e a parlarne siano, proprio e soprattutto, i “sacchi leggi”!
Soprattutto nella fase iniziale del suo percorso di affermazione politico-sociale, il “saccu leggiu” dimostra, a ben vedere, molta buona fede, ma anche una scarsa visione ideologica e conoscenza storica. È quasi sempre animato da buone intenzioni e ritiene di essere colmo di virtù e saggezza. Si ritiene la guida naturale della sua collettività, capace di interpretare e di esprimere in sintesi le differenti aspettative; il leader finalmente in grado di superare lo strenuo e paralizzante ostracismo delle differenti ideologie, alle quali, comunque, egli attinge in modo molto trasversale.
Rispetto a ciò che non realizza, il “saccu leggiu” non prova alcuna frustrazione e nulla lo smuove dalla convinzione iniziale circa le sue doti personali. Una persona comune, al suo posto, prenderebbe atto e coscienza della propria inettitudine, lasciando umilmente il posto. Il “saccu leggiu”, invece, persevera testardo con atteggiamento messianico e nel contempo vittimista, convinto com’è che nessuno sia in grado di sostituirlo e che ad ostacolarlo siano fatti imponderabili, ma, soprattutto, indipendenti dalla forza della sua ragione.
Nell’approccio alle questioni politiche, il “saccu leggiu” adotta sempre una visione contingente, basata su una percezione epidermica delle priorità collettive. Con grande perspicacia, egli monta, smonta e rimonta continuamente la propria idea di futuro, rimanendo in tal modo sempre attuale, coerente e carismatico. La sua intelligenza è davvero superiore, anche perché, per emergere, spesso si attornia di intelletti piuttosto modesti, che nutrono nei suoi riguardi una devozione quasi apostolica e ai quali, comunque, dispensa ruoli e favori sempre fortemente correlati, nel prestigio, alla sua ascesa personale. Dimostra, inoltre, una straordinaria abilità nel confondere gli interlocutori e nell’esprimere, laddove per lui si palesino difficoltà, l’esatto contrario di quanto sembrava aver sostenuto solo poco tempo prima.
Nel confronto dialettico adotta sempre un criterio di tipo differenziale ed oppositivo ad ogni costo, in quanto vede se stesso come il solo che sia in grado di affrontare e risolvere le questioni da lui, in quel momento, giudicate rilevanti. Ha necessità vitale di un opponente, poiché i limiti ed i vizi di quest’ultimo servono, per differenza e contrasto, ad esaltare le sue doti di leader. Peraltro, questa forma di apparente scontro con l’avversario, che si consuma con punte anche elevate di plateale maleducazione reciproca, lo aiuta ad evitare il confronto diretto sui contenuti, relativamente ai quali, sia lui che l’opponente, spesso anch’egli “saccu leggiu”, dimostrano un’assoluta impreparazione o, al massimo, una conoscenza molto superficiale. All’interno di questa illusoria contrapposizione, quindi, tra i due “sacchi leggi” finisce con il sostanziarsi un tacito accordo di tipo corporativistico/solidaristico, che legittima entrambi e che prende in scarsissima considerazione le effettive capacità di ascolto e comprensione degli astanti. Il “saccu leggiu”, infatti, è talmente arrogante e corporativo, da non temere affatto la democrazia dell’alternanza, nella quale riesce sempre e comunque a trovare un posto e all’interno della quale trova tutto il tempo per elaborare il proprio piano d’azione futuro. Oltretutto, nell’attuale sistema di formazione della rappresentanza democratica, il “saccu leggiu” dispone di un metodo formidabile, che gli assicura sovranità assoluta e potere incontrastato di decisione. L’attuale meccanismo elettorale, infatti, ha privato il cittadino del diritto elementare di scegliere il proprio candidato, in base al nome e al curriculum.
Ciò che il “saccu leggiu”, invece, teme è l’astensionismo di massa e la critica di quanti, in modo indipendente, sono ancora capaci di esprimere il proprio punto di vista nella società civile, al di fuori delle apparenze formali e dei pur sempre comodi steccati ideologici. Di fronte al sorgere di tali movimenti, che per nostra fortuna sempre più visibili e spontanei nella società attuale, il “saccu leggiu”, con sostegno corporativo, prova a cooptare quanti muovono la critica con maggiore accanimento e, laddove non vi riesce, accusa costoro di qualunquismo, di generica antipolitica o di scarso senso di responsabilità verso la cosa pubblica.
Al punto in cui siamo giunti, ci dovremmo porre alcune domande, con l’obiettivo di provare a dare ad esse una risposta:
I cittadini sono i responsabili o le vittime di tale fenomeno?
Per quale ragione le elezioni, ovvero il momento di massima espressione della maturità democratica di una società, si sono ridotte a nulla più che ad una specie di concorso pubblico?
Perché, durante le elezioni, insieme ai politici veri si trovano a concorrere, sullo stesso piano, starlette ed imbonitori televisivi, faccendieri, avventurieri, ecc.?
La sensazione, che almeno io ricavo, è che i cittadini abbiano perso completamente di vista la loro funzione politica nella società. Anzi penso che, a ritenere il voto come l’occasione per esprimere liberamente e democraticamente la propria visione politica e, soprattutto, l’ideale personale di benessere futuro e collettivo, siano rimasti soltanto i più anziani o forse coloro, giovani e adulti, che volontariamente partecipano meno ai riti di massificazione globale del pensiero o agli effetti anestetizzanti dei luoghi comuni e dei cliché dispensati dai media. La maggioranza dei nostri concittadini sembra, invece, partire dal presupposto che in politica siano tutti uguali e corrotti o, al limite, corruttibili una volta entrati nel giro, e che sia pertanto inutile ragionare intorno alle “utopie” circa il futuro possibile o migliore, ma ben più pratico ricavare, da questa opportunità e dal proprio voto, l’immediato tornaconto personale. In tale contesto e a fronte di questa de-responsabilizzazione sociale, risoltasi in una sostanziale “cambiale in bianco” girata dai cittadini ai partiti, la politica ha finito col perdere di vista i propri contenuti e ha cominciato ad esaltare tutto ciò che è contingente, ovvero tutto quanto possa, cavalcando l’attualità e l’emotività popolare, catturare nel breve i maggiori consensi elettorali.
Se il cittadino è portato a riflettere intorno a questa realtà, la risposta che se ne deriva è quella di un “qualunquismo di necessità”, ovvero di una forma di vittimismo, consapevole, che si giustifica, da un lato, con la prepotenza dei politici e, dall’altro, con la scarsa considerazione che si ha degli altri cittadini, i quali sono sempre mossi dall’esclusivo tornaconto personale. In tal modo, ciascuno finisce con il perseguire quello proprio, di tornaconto, e con il legittimare il politico più sfrontato, contribuendo, alla fine, all’involuzione sociale del sistema democratico e alla perdita di ogni identità e ragione per essere e sentirsi parte, attiva, di una collettività.
Il cittadino comune è, quindi, il responsabile ultimo di ogni attuale fenomeno di degenerazione nel sistema della rappresentanza politica ed è, quindi, da lui che si deve ripartire per rifondare una società nuova, che sia davvero democratica. Senza creare nuovi partiti, bisognerebbe riuscire a riprendere in mano la politica, facendo in modo che quelli che esistono ricomincino a fare politica, in modo autentico, sulla base di una dialettica sana e nell’interesse di tutti. Difetti e pregi della nostra classe politica dovrebbero essere oggetto di un dibattito costante e di un confronto pubblico periodico, nel quale i responsabili possano finalmente dare il conto delle loro iniziative o della loro inerzia.
Attraverso il dibattito e la trasparenza si devono aiutare le persone comuni, quelle che alla fine con il loro voto decidono, a pensare in modo autenticamente e finalmente libero, sulla base di elementi oggettivi che servano a creare in loro conoscenza documentata sul fenomeno, coscienza civica e autonomia di giudizio.
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domenica 6 dicembre 2009
Valore economico e crisi di valore
Il valore è il metro di ogni scelta e il presupposto di ogni nostro giudizio, sia che questo riguardi l’ambito della nostra esistenza materiale o delle relazioni interpersonali, sia che il valore attenga alla nostra sfera etico- morale o emozionale- affettiva. Il valore ci orienta costantemente, in modo spesso inconsapevole, nelle scelte che operiamo e nei giudizi che esprimiamo sugli altri, costringendoci alla misurazione e al confronto delle differenti alternative possibili, quelle per noi individuabili nello scenario del nostro, pur sempre, limitato concepibile. Il valore ci aiuta a soddisfare il nostro bisogno di appagamento, anche spirituale, nonostante ci imponga di rinunciare, più o meno implicitamente, a percorsi di soddisfazione differenti. Le scelte di valore, infatti, si fondano su decisioni di tipo relativo e discriminante, che ci inducono a decidere sulla base di uno scarto, di una differenza tra risultati contrapposti e/o contrapponibili.
In quanto metro della ragione, il valore si radica e si stratifica nel profondo della nostra coscienza, arrivando ad assumere in questa lo stadio di verità, raramente controvertibile. Attraverso il lento processo di metabolizzazione dell’educazione, anche quando questa assume i caratteri estremi della coercizione, grazie all’esempio che riceviamo e/o alla comprensione della nostra vicenda umana, deriviamo la nostra cultura e con essa cristallizziamo la sintesi di valore delle nostre suggestioni, riconducendole, comunque, all’interno di poche categorie, con le quali classifichiamo gli eventi e i casi della vita in modo efficiente.
Il valore, tuttavia, non è soltanto il patrimonio di un singolo individuo. Nel momento in cui esso viene stabilmente condiviso e riconosciuto da una moltitudine, il valore diventa il patrimonio di tutti gli individui, che per questa ragione assumono la veste e il significato ulteriore di una comunità. Allo scopo di tramandare questo patrimonio alle generazioni future, la comunità codifica il sistema dei valori collettivi all’interno di alcuni precetti fondamentali, in base ai quali dispone ogni altra specifica norma di comportamento per i propri membri, definendo a corollario, gli specifici profili sanzionatori. Sotto questo profilo, dichiarazioni fondamentali, quali la carta costituzionale, rappresentano il punto di arrivo più elevato e nobile a cui una comunità sociale possa ambire, poiché in queste documenti si ritrovano i più importanti traguardi di civiltà raggiunti, spesso anche al costo di lotte sanguinose o di eventi e sommovimenti drammatici, per la vita degli individui che hanno fatto la storia di quella comunità.
Il valore, quindi, è un’entità astratta, che diventa metro e guida per i nostri comportamenti quotidiani ad ogni livello, ma soprattutto quando ci troviamo a condividere scopi, alimentando relazioni di scambio e di confronto con gli altri. Ma valore è, purtroppo, anche un sinonimo e il termine fondamentale che l’economia utilizza per qualificare le cose, e per dare loro un ordine di importanza relativa. Nelle sue prime accezioni, la teoria economica attribuiva un senso a questa parola e correlava il valore, essenzialmente, all’utilità incorporata nei beni e alla loro più o meno elevata disponibilità nel mercato. In base a questo principio, un bene e/o un servizio, utili per il soddisfacimento dei nostri bisogni quotidiani, avrebbe avuto un valore elevato e tanto maggiore se fosse risultato nel contempo di difficile reperibilità. È un concetto, questo, che risponde a una logica di lineare buon senso: ciascuno di noi cerca di soddisfare le lacune della propria esistenza, operando una selezione attenta delle fonti da cui può ricavare il benessere. Tendenzialmente, non ci approvvigioniamo di cose “inutili” e, d’altro canto, siamo indotti a ritenere la nostra iniziale percezione di mancanza, tanto più urgente da soddisfare, quanto più costatiamo la scarsità del bene o la sua rarità o la presenza di numerose e concorrenti richieste da parte di molteplici individui sullo stesso bene. Quindi, a parità di utilità, tenderemo ad attribuire un valore maggiore alle cose e, in genere, a quelle più difficili da procacciare.
Nelle sue primissime forme, le attribuzioni di valore intervenivano mediante il ricorso al baratto. Si contrapponevano tra le parti utilità e scarsità rispettive e si giungeva a un rapporto di equivalenza che fosse in grado di soddisfare entrambi i contraenti. In seguito, con il passare del tempo e con l’aumentare degli scambi, per effetto della specializzazione e della divisione del lavoro, ma anche a causa dell’estremizzazione del concetto di utilità (per cui su questa si sono innestati e diventati prevalenti elementi di giudizio quali: status, estetica, moda, gusto, ecc.), si decise di affidare a un metro esterno il ruolo di fotografare il valore delle cose, in modo “oggettivo” e stabile. Quel ruolo fu affidato al denaro e a un bene che, più di ogni altro, fosse capace di attribuirne il valore, la supremazia relativa e la stabilità nel tempo: l’oro. Purtroppo per noi, l’oro in quanto metro del valore economico, non ha mai posseduto anche il requisito della necessaria indipendenza e neutralità, dato che a detenerlo erano e sono ancora oggi pochi e ricchissimi individui, non certo scrupolosissimi sul piano morale. Il metro del denaro, quindi, acquisì il rango di metro per tutte le cose e per tutti gli individui, ma fu sin dall’origine affetto da vizi e soggetto ai pericolosi condizionamenti di quelle poche persone che lo detenevano e che erano in grado, perciò stesso, di manipolarlo. E non è un caso, a mio avviso, che ancora oggi le banche centrali continuino a essere di proprietà dei banchieri, pur essendo istituzioni di diritto pubblico nell’ordinamento di ogni Stato sovrano.
Ma proseguendo nel ragionamento intorno ai valori in generale e al confronto di questi con il concetto di valore in senso economico, diventa adesso doveroso riflettere sulla peculiarità del processo di creazione di quest’ultimo. Il valore economico si crea sempre attraverso un processo di trasformazione, che “distrugge” il valore originario dei beni e dei servizi che impiega, allo scopo di crearne non soltanto di nuovo, ma anche in quantità superiore a quello che era proprio dei beni e dei servizi che consumati. Ad esempio, quando produciamo il pane, “distruggiamo” il valore specifico della farina e del lievito che ci permettono di produrlo e creiamo, grazie alla nostra originale azione creativa, un nuovo prodotto, una nuova utilità, il cui valore assoluto, se il pane ci viene bene…, supera necessariamente quello della farina e del lievito che abbiamo consumato. Questo presupposto fondamentale si definisce principio dell’economicità e non può essere disatteso, nella logica di cui si discute. Se il valore del pane e l’utilità che ne ricaviamo, fossero inferiori a quelli della farina e del lievito, in quanto tali, non avrebbe alcun senso logico produrre pane.
C’è, tuttavia, in questo ragionamento, un limite specifico, che mette in luce, e in tutta la sua evidenza, un cortocircuito etico- morale e una contraddizione di fondo tra il principio dell’economicità, valore guida della teoria economica applicata, e il più ampio ventaglio dei valori umani ai quali vorremmo sempre ispirarci sul piano ideale. Il limite è, a mio avviso, ravvisabile nell’ambiguità di ruolo che l’economia affida a una risorsa fondamentale per i processi di trasformazione della ricchezza e di creazione del valore: l’uomo. In economia, nonostante alcune sfumature più o meno circostanziate nelle differenti correnti di pensiero (da Ricardo, fino allo stesso Marx, senza dimenticare Weber, Taylor, Mayo, ecc.), l’uomo assume il rango di mezzo di produzione assimilabile a un bene e, in quanto tale, l’uomo, così come il bene materiale, finisce con l’avere un proprio valore intrinseco (un proprio prezzo di vendita), che è misurabile sempre sulla base dell’unico metro: il denaro. La prestazione lavorativa, ma anche quella imprenditoriale, assumono valore e magnitudine proprie, che risultano proporzionali alla “utilità” della competenza, ma dipendenti dal peso relativo di ogni individuo nel processo di produzione. È un criterio spietato, che ha condotto e che conduce non pochi individui all’alienazione e alla disperazione estreme, soprattutto in questo periodo di profonda crisi economica, diventando causa di conflitti e di contrapposizioni sociali dai risvolti spesso drammatici.
Ma la supremazia dell’approccio economico all’idea di valore e il suo contraddittorio riflesso sulla nostra morale sono evidenti a tutti. Tutta la nostra vita si snoda, alla fine, intorno a scelte valoriali di tipo economico, che tengono in primo luogo conto del metro monetario: sin dalla scelta del percorso di studi, fino alla scelta del luogo in cui vivere o anche fino all’idea di mettere o meno al mondo dei figli. Siamo, molto spesso, drammaticamente condizionati da ciò che possediamo e nella comunità cui partecipiamo, ci ritroviamo ad avere facoltà di esplicare il nostro essere, in misura pari alla nostra capacità, potenziale e reale, di accumulare la ricchezza materiale. L’idea del nostro benessere ruota invariabilmente, anche a livello politico- istituzionale, intorno al principio della crescita materiale. Lo stesso indicatore di benessere di una nazione è ancora oggi il PIL, un indicatore che misura la quantità di ricchezza materiale a valore monetario, creata da una comunità nel corso di un determinato periodo di tempo. Sull’altare di questa folle simmetria, in base alla quale il benessere dell’individuo corrisponde alla sua disponibilità di ricchezza materiale, abbiamo sacrificato diritti e valori ben più importanti: la solidarietà umana; il rifiuto del razzismo; la libertà in tutte le sue forme; lo studio; la salute; la sicurezza; ecc.
Quanti individui vengono giornalmente espulsi dal sistema produttivo della ricchezza o respinti alle frontiere in modo sprezzante e quanta indifferenza da parte di tanti si accumula intorno a loro e alla loro sorte e quanto è misero e risibile, nello stesso tempo, il nostro compianto.
Dovremmo, quindi, con coraggio e con urgenza profondamente ridisegnare il nostro sistema di relazioni e di modi di misurare i valori, per riuscire a superare questa logica in definitiva aberrante. Lo scambio economico è, per sua natura, configurato in maniera tale da impoverire un individuo a vantaggio di un altro. Attraverso questo genere di scambi, se vogliamo acquisire un bene o un servizio, dobbiamo sacrificare inevitabilmente una parte della nostra ricchezza, nei limiti di quanta abbiamo oggi disponibile. È un “do ut des” piuttosto rigido, che non fa sconti a nessuno, al quale hanno diritto di partecipare solo coloro che posseggono qualcosa che sia meritevole di valutazione. Ci sono forme si scambio, invece, nelle quali nessuno dei contraenti si impoverisce. Se io trasferisco agli altri la mia conoscenza, io non la perdo affatto, anzi probabilmente mi arricchisco, grazie al confronto dialettico con coloro ai quali la trasmetto. Attraverso gli scambi di tipo non monetario, in definitiva, tutti hanno la possibilità di arricchirsi ed è su questi modelli che dovremmo puntare per realizzare una comunità umana, finalmente degna di essere definita tale.
Abbiamo quindi bisogno di una nuova utopia che punti a una seria “economia della solidarietà”, che abbandoni la spietatezza del metro monetario, l’ingordigia del possesso materiale e nella quale sia esaltata, piuttosto, la creatività umana e la spinta naturale e positiva dell’uomo verso la socializzazione e la condivisione delle risorse e degli obiettivi. Le crisi economiche, come quella attuale, possono essere l’ambiente fertile per creare questo nuovo percorso di coscienza.
In quanto metro della ragione, il valore si radica e si stratifica nel profondo della nostra coscienza, arrivando ad assumere in questa lo stadio di verità, raramente controvertibile. Attraverso il lento processo di metabolizzazione dell’educazione, anche quando questa assume i caratteri estremi della coercizione, grazie all’esempio che riceviamo e/o alla comprensione della nostra vicenda umana, deriviamo la nostra cultura e con essa cristallizziamo la sintesi di valore delle nostre suggestioni, riconducendole, comunque, all’interno di poche categorie, con le quali classifichiamo gli eventi e i casi della vita in modo efficiente.
Il valore, tuttavia, non è soltanto il patrimonio di un singolo individuo. Nel momento in cui esso viene stabilmente condiviso e riconosciuto da una moltitudine, il valore diventa il patrimonio di tutti gli individui, che per questa ragione assumono la veste e il significato ulteriore di una comunità. Allo scopo di tramandare questo patrimonio alle generazioni future, la comunità codifica il sistema dei valori collettivi all’interno di alcuni precetti fondamentali, in base ai quali dispone ogni altra specifica norma di comportamento per i propri membri, definendo a corollario, gli specifici profili sanzionatori. Sotto questo profilo, dichiarazioni fondamentali, quali la carta costituzionale, rappresentano il punto di arrivo più elevato e nobile a cui una comunità sociale possa ambire, poiché in queste documenti si ritrovano i più importanti traguardi di civiltà raggiunti, spesso anche al costo di lotte sanguinose o di eventi e sommovimenti drammatici, per la vita degli individui che hanno fatto la storia di quella comunità.
Il valore, quindi, è un’entità astratta, che diventa metro e guida per i nostri comportamenti quotidiani ad ogni livello, ma soprattutto quando ci troviamo a condividere scopi, alimentando relazioni di scambio e di confronto con gli altri. Ma valore è, purtroppo, anche un sinonimo e il termine fondamentale che l’economia utilizza per qualificare le cose, e per dare loro un ordine di importanza relativa. Nelle sue prime accezioni, la teoria economica attribuiva un senso a questa parola e correlava il valore, essenzialmente, all’utilità incorporata nei beni e alla loro più o meno elevata disponibilità nel mercato. In base a questo principio, un bene e/o un servizio, utili per il soddisfacimento dei nostri bisogni quotidiani, avrebbe avuto un valore elevato e tanto maggiore se fosse risultato nel contempo di difficile reperibilità. È un concetto, questo, che risponde a una logica di lineare buon senso: ciascuno di noi cerca di soddisfare le lacune della propria esistenza, operando una selezione attenta delle fonti da cui può ricavare il benessere. Tendenzialmente, non ci approvvigioniamo di cose “inutili” e, d’altro canto, siamo indotti a ritenere la nostra iniziale percezione di mancanza, tanto più urgente da soddisfare, quanto più costatiamo la scarsità del bene o la sua rarità o la presenza di numerose e concorrenti richieste da parte di molteplici individui sullo stesso bene. Quindi, a parità di utilità, tenderemo ad attribuire un valore maggiore alle cose e, in genere, a quelle più difficili da procacciare.
Nelle sue primissime forme, le attribuzioni di valore intervenivano mediante il ricorso al baratto. Si contrapponevano tra le parti utilità e scarsità rispettive e si giungeva a un rapporto di equivalenza che fosse in grado di soddisfare entrambi i contraenti. In seguito, con il passare del tempo e con l’aumentare degli scambi, per effetto della specializzazione e della divisione del lavoro, ma anche a causa dell’estremizzazione del concetto di utilità (per cui su questa si sono innestati e diventati prevalenti elementi di giudizio quali: status, estetica, moda, gusto, ecc.), si decise di affidare a un metro esterno il ruolo di fotografare il valore delle cose, in modo “oggettivo” e stabile. Quel ruolo fu affidato al denaro e a un bene che, più di ogni altro, fosse capace di attribuirne il valore, la supremazia relativa e la stabilità nel tempo: l’oro. Purtroppo per noi, l’oro in quanto metro del valore economico, non ha mai posseduto anche il requisito della necessaria indipendenza e neutralità, dato che a detenerlo erano e sono ancora oggi pochi e ricchissimi individui, non certo scrupolosissimi sul piano morale. Il metro del denaro, quindi, acquisì il rango di metro per tutte le cose e per tutti gli individui, ma fu sin dall’origine affetto da vizi e soggetto ai pericolosi condizionamenti di quelle poche persone che lo detenevano e che erano in grado, perciò stesso, di manipolarlo. E non è un caso, a mio avviso, che ancora oggi le banche centrali continuino a essere di proprietà dei banchieri, pur essendo istituzioni di diritto pubblico nell’ordinamento di ogni Stato sovrano.
Ma proseguendo nel ragionamento intorno ai valori in generale e al confronto di questi con il concetto di valore in senso economico, diventa adesso doveroso riflettere sulla peculiarità del processo di creazione di quest’ultimo. Il valore economico si crea sempre attraverso un processo di trasformazione, che “distrugge” il valore originario dei beni e dei servizi che impiega, allo scopo di crearne non soltanto di nuovo, ma anche in quantità superiore a quello che era proprio dei beni e dei servizi che consumati. Ad esempio, quando produciamo il pane, “distruggiamo” il valore specifico della farina e del lievito che ci permettono di produrlo e creiamo, grazie alla nostra originale azione creativa, un nuovo prodotto, una nuova utilità, il cui valore assoluto, se il pane ci viene bene…, supera necessariamente quello della farina e del lievito che abbiamo consumato. Questo presupposto fondamentale si definisce principio dell’economicità e non può essere disatteso, nella logica di cui si discute. Se il valore del pane e l’utilità che ne ricaviamo, fossero inferiori a quelli della farina e del lievito, in quanto tali, non avrebbe alcun senso logico produrre pane.
C’è, tuttavia, in questo ragionamento, un limite specifico, che mette in luce, e in tutta la sua evidenza, un cortocircuito etico- morale e una contraddizione di fondo tra il principio dell’economicità, valore guida della teoria economica applicata, e il più ampio ventaglio dei valori umani ai quali vorremmo sempre ispirarci sul piano ideale. Il limite è, a mio avviso, ravvisabile nell’ambiguità di ruolo che l’economia affida a una risorsa fondamentale per i processi di trasformazione della ricchezza e di creazione del valore: l’uomo. In economia, nonostante alcune sfumature più o meno circostanziate nelle differenti correnti di pensiero (da Ricardo, fino allo stesso Marx, senza dimenticare Weber, Taylor, Mayo, ecc.), l’uomo assume il rango di mezzo di produzione assimilabile a un bene e, in quanto tale, l’uomo, così come il bene materiale, finisce con l’avere un proprio valore intrinseco (un proprio prezzo di vendita), che è misurabile sempre sulla base dell’unico metro: il denaro. La prestazione lavorativa, ma anche quella imprenditoriale, assumono valore e magnitudine proprie, che risultano proporzionali alla “utilità” della competenza, ma dipendenti dal peso relativo di ogni individuo nel processo di produzione. È un criterio spietato, che ha condotto e che conduce non pochi individui all’alienazione e alla disperazione estreme, soprattutto in questo periodo di profonda crisi economica, diventando causa di conflitti e di contrapposizioni sociali dai risvolti spesso drammatici.
Ma la supremazia dell’approccio economico all’idea di valore e il suo contraddittorio riflesso sulla nostra morale sono evidenti a tutti. Tutta la nostra vita si snoda, alla fine, intorno a scelte valoriali di tipo economico, che tengono in primo luogo conto del metro monetario: sin dalla scelta del percorso di studi, fino alla scelta del luogo in cui vivere o anche fino all’idea di mettere o meno al mondo dei figli. Siamo, molto spesso, drammaticamente condizionati da ciò che possediamo e nella comunità cui partecipiamo, ci ritroviamo ad avere facoltà di esplicare il nostro essere, in misura pari alla nostra capacità, potenziale e reale, di accumulare la ricchezza materiale. L’idea del nostro benessere ruota invariabilmente, anche a livello politico- istituzionale, intorno al principio della crescita materiale. Lo stesso indicatore di benessere di una nazione è ancora oggi il PIL, un indicatore che misura la quantità di ricchezza materiale a valore monetario, creata da una comunità nel corso di un determinato periodo di tempo. Sull’altare di questa folle simmetria, in base alla quale il benessere dell’individuo corrisponde alla sua disponibilità di ricchezza materiale, abbiamo sacrificato diritti e valori ben più importanti: la solidarietà umana; il rifiuto del razzismo; la libertà in tutte le sue forme; lo studio; la salute; la sicurezza; ecc.
Quanti individui vengono giornalmente espulsi dal sistema produttivo della ricchezza o respinti alle frontiere in modo sprezzante e quanta indifferenza da parte di tanti si accumula intorno a loro e alla loro sorte e quanto è misero e risibile, nello stesso tempo, il nostro compianto.
Dovremmo, quindi, con coraggio e con urgenza profondamente ridisegnare il nostro sistema di relazioni e di modi di misurare i valori, per riuscire a superare questa logica in definitiva aberrante. Lo scambio economico è, per sua natura, configurato in maniera tale da impoverire un individuo a vantaggio di un altro. Attraverso questo genere di scambi, se vogliamo acquisire un bene o un servizio, dobbiamo sacrificare inevitabilmente una parte della nostra ricchezza, nei limiti di quanta abbiamo oggi disponibile. È un “do ut des” piuttosto rigido, che non fa sconti a nessuno, al quale hanno diritto di partecipare solo coloro che posseggono qualcosa che sia meritevole di valutazione. Ci sono forme si scambio, invece, nelle quali nessuno dei contraenti si impoverisce. Se io trasferisco agli altri la mia conoscenza, io non la perdo affatto, anzi probabilmente mi arricchisco, grazie al confronto dialettico con coloro ai quali la trasmetto. Attraverso gli scambi di tipo non monetario, in definitiva, tutti hanno la possibilità di arricchirsi ed è su questi modelli che dovremmo puntare per realizzare una comunità umana, finalmente degna di essere definita tale.
Abbiamo quindi bisogno di una nuova utopia che punti a una seria “economia della solidarietà”, che abbandoni la spietatezza del metro monetario, l’ingordigia del possesso materiale e nella quale sia esaltata, piuttosto, la creatività umana e la spinta naturale e positiva dell’uomo verso la socializzazione e la condivisione delle risorse e degli obiettivi. Le crisi economiche, come quella attuale, possono essere l’ambiente fertile per creare questo nuovo percorso di coscienza.
L'Italia: paese della retorica e dei cervelli in fuga.
Mi ha piuttosto colpito la lettera che Pier Luigi Celli, Direttore Generale della Università LUISS, ha indirizzato al proprio figlio. Non tanto per la lettera in sé o per il suo contenuto (un padre che invita il figlio a lasciare il paese, tra la gente comune, è un fatto abbastanza scontato), ma perché quel padre non è un uomo qualunque. Pier Luigi Celli è stato il Direttore Generale della RAI, un uomo di apparato molto ben inserito nella cosa pubblica; uno di quei personaggi dal quale, proprio perché potente, mai e poi mi sarei aspettato una lettera e un appello simili.
Il nostro è un paese bloccato e storicamente castrato dal nepotismo e dalle raccomandazioni, a ogni livello: locale, nazionale, pubblico, privato. È un paese, il nostro, nel quale il merito ha da sempre avuto un valore molto relativo. In Italia, sul piano della vita professionale, puoi esistere, se fai parte di un clan: una famiglia, un partito, una lobby, ecc. “Ecco, guardati attorno. Quello che puoi vedere è che tutto questo ha sempre meno valore in una Società divisa, rissosa, fortemente individualista, pronta a svendere i minimi valori di solidarietà e di onestà, in cambio di un riconoscimento degli interessi personali, di prebende discutibili; di carriere feroci fatte su meriti inesistenti. A meno che non sia un merito l'affiliazione, politica, di clan, familistica: poco fa la differenza.“
La fuga dei cervelli è un fenomeno che ha sempre riguardato il giovane universitario brillante, del tutto privo degli agganci giusti. Quanti concorsi truccati, nel nome della disgustosa pratica nepotismo. Quanta gente è riuscita a fare carriera in barba ai più meritevoli, solo perché figlia di Tizio, piuttosto che di Caio: “…Incapperai nei destini gloriosi di chi, avendo fatto magari il taxista, si vede premiato - per ragioni intuibili - con un Consiglio di Amministrazione, o non sapendo nulla di elettricità, gas ed energie varie, accede imperterrito al vertice di una Multiutility.”
Il fatto, quindi, che una personalità come Celli inviti il proprio figlio ad andarsene, fa intuire come l’Italia sia davvero arrivata alla “frutta”: “Questo è un Paese in cui, se ti va bene, comincerai guadagnando un decimo di un portaborse qualunque; un centesimo di una velina o di un tronista; forse poco più di un millesimo di un grande manager che ha all'attivo disavventure e fallimenti che non pagherà mai.”
Del resto, è un Paese, il nostro, in forte e irreversibile declino: che ha perso e perde competività da molti anni, in quasi tutti i settori economici; che non ha investito e investe in ricerca di base, né in quella applicata; che ha utilizzato e utilizza ancora la scuola come un parcheggio per studenti e insegnanti precari, più che come la fucina per la formazione delle classi dirigenti future e dei cittadini del domani. Un paese nel quale tutto ciò che è sinora accaduto, anche le stragi di inermi cittadini, sembra che siano avvenute per caso, senza che possano mai ravvisarsi le colpe di nessuno “Questo è un Paese in cui nessuno sembra destinato a pagare per gli errori fatti; figurarsi se si vorrà tirare indietro pensando che non gli tocchi un posto superiore, una volta officiato, per raccomandazione, a qualsiasi incarico.”
Ma sento un altro motivo di disagio, sempre a proposito della vicenda di cui discuto in questa nota, ed è la vuota retorica istituzionale che ha fatto seguito alla lettera di Celli. Quella retorica che è tipica dei nostri zelanti governanti, in primo luogo, dal nostro tanto stimato Capo dello Stato. Ai giornalisti che gli hanno chiesto un commento sulla lettera del direttore generale Pier Luigi Celli, Napolitano ha risposto: "Non credo che si possa dire a nessuno che ritorneremo alla Roma imperiale, sarebbe francamente eccessivo. Però, su questa base possiamo far crescere un Paese che sia all'altezza delle conquiste, anche delle civiltà contemporanee più avanzate".
Di fronte a questa “necessaria", "opportuna" sua affermazione, così utile a rinsaldare l’amor patrio in noi tutti, a me viene spontaneo rammentare all’illustre Presidente Giorgio Napolitano il modo in cui suo figlio Giulio è riuscito a entrare e a fare carriera in ambito universitario, il tutto ai danni di un tale Roberto Tomei. Giulio Napolitano, oltre a lavorare come consigliere per la Presidenza del Consiglio, ha infatti vinto un concorso a cattedra universitaria in diritto amministrativo, con un numero di pubblicazioni nettamente inferiore a quelle di Tomei. Quest'ultimo, di fronte al torto subito, ha fatto e vinto il ricorso con sentenza del Consiglio di Stato, che (per la prima volta in questo genere di ricorsi) ha affermato il principio secondo cui “per pubblicazione debbono intendersi soltanto le pubblicazioni diffuse nell´ambito della comunità scientifica che il candidato può vantare all´atto della domanda… la monografia del dott. Napolitano “Servizi pubblici e rapporti di utenza” risulta prodotta in esemplare stampato in proprio dall´autore, onde la stessa difetta del requisito minimo per essere definita pubblicazione valutabile agli effetti del concorso de quo“.
E i giudici hanno aggiunto: “Tale lavoro ha costituito elemento decisivo per la valutazione del candidato, in quanto ritenuto dalla commissione, quello di maggior rilievo sul piano sia formale sia sostanziale, come si evince chiaramente dai giudizi formulati, onde la sua non ammissibilità impone, di necessità, la rinnovazione del giudizio di idoneità espresso nei suoi confronti“.
Tuttavia, l'originaria Commissione esaminatrice, investita nuovamente della valutazione, ha preferito “farsi decadere”. Una nuova Commissione, costituita nell´agosto 2005, è stata poi annullata più di un mese dopo. Solo dopo una diffida da parte di Tomei, a febbraio del 2006, la commissione è stata ricostituita e ha terminato i propri lavori nel giugno del 2006. Non essendosi presentata la candidata D´Orsogna, si è trattato di attribuire due posti fra i rimanenti candidati, cioè Napolitano e Tomei. Ancora una volta Tomei è stato bocciato, ancorché dovessero essere valutati titoli non considerati dalla prima commissione. E´ risultato idoneo invece Giulio Napolitano, nonostante il suo lavoro principale, quello sul quale la prima commissione aveva fatto leva per promuoverlo, non potesse essere più oggetto di valutazione secondo la sentenza del Consiglio di stato. E così, alla fine, vissero tutti felici e contenti!
Evviva la retorica! Evviva il nepotismo! Evviva l'Italia!
Il nostro è un paese bloccato e storicamente castrato dal nepotismo e dalle raccomandazioni, a ogni livello: locale, nazionale, pubblico, privato. È un paese, il nostro, nel quale il merito ha da sempre avuto un valore molto relativo. In Italia, sul piano della vita professionale, puoi esistere, se fai parte di un clan: una famiglia, un partito, una lobby, ecc. “Ecco, guardati attorno. Quello che puoi vedere è che tutto questo ha sempre meno valore in una Società divisa, rissosa, fortemente individualista, pronta a svendere i minimi valori di solidarietà e di onestà, in cambio di un riconoscimento degli interessi personali, di prebende discutibili; di carriere feroci fatte su meriti inesistenti. A meno che non sia un merito l'affiliazione, politica, di clan, familistica: poco fa la differenza.“
La fuga dei cervelli è un fenomeno che ha sempre riguardato il giovane universitario brillante, del tutto privo degli agganci giusti. Quanti concorsi truccati, nel nome della disgustosa pratica nepotismo. Quanta gente è riuscita a fare carriera in barba ai più meritevoli, solo perché figlia di Tizio, piuttosto che di Caio: “…Incapperai nei destini gloriosi di chi, avendo fatto magari il taxista, si vede premiato - per ragioni intuibili - con un Consiglio di Amministrazione, o non sapendo nulla di elettricità, gas ed energie varie, accede imperterrito al vertice di una Multiutility.”
Il fatto, quindi, che una personalità come Celli inviti il proprio figlio ad andarsene, fa intuire come l’Italia sia davvero arrivata alla “frutta”: “Questo è un Paese in cui, se ti va bene, comincerai guadagnando un decimo di un portaborse qualunque; un centesimo di una velina o di un tronista; forse poco più di un millesimo di un grande manager che ha all'attivo disavventure e fallimenti che non pagherà mai.”
Del resto, è un Paese, il nostro, in forte e irreversibile declino: che ha perso e perde competività da molti anni, in quasi tutti i settori economici; che non ha investito e investe in ricerca di base, né in quella applicata; che ha utilizzato e utilizza ancora la scuola come un parcheggio per studenti e insegnanti precari, più che come la fucina per la formazione delle classi dirigenti future e dei cittadini del domani. Un paese nel quale tutto ciò che è sinora accaduto, anche le stragi di inermi cittadini, sembra che siano avvenute per caso, senza che possano mai ravvisarsi le colpe di nessuno “Questo è un Paese in cui nessuno sembra destinato a pagare per gli errori fatti; figurarsi se si vorrà tirare indietro pensando che non gli tocchi un posto superiore, una volta officiato, per raccomandazione, a qualsiasi incarico.”
Ma sento un altro motivo di disagio, sempre a proposito della vicenda di cui discuto in questa nota, ed è la vuota retorica istituzionale che ha fatto seguito alla lettera di Celli. Quella retorica che è tipica dei nostri zelanti governanti, in primo luogo, dal nostro tanto stimato Capo dello Stato. Ai giornalisti che gli hanno chiesto un commento sulla lettera del direttore generale Pier Luigi Celli, Napolitano ha risposto: "Non credo che si possa dire a nessuno che ritorneremo alla Roma imperiale, sarebbe francamente eccessivo. Però, su questa base possiamo far crescere un Paese che sia all'altezza delle conquiste, anche delle civiltà contemporanee più avanzate".
Di fronte a questa “necessaria", "opportuna" sua affermazione, così utile a rinsaldare l’amor patrio in noi tutti, a me viene spontaneo rammentare all’illustre Presidente Giorgio Napolitano il modo in cui suo figlio Giulio è riuscito a entrare e a fare carriera in ambito universitario, il tutto ai danni di un tale Roberto Tomei. Giulio Napolitano, oltre a lavorare come consigliere per la Presidenza del Consiglio, ha infatti vinto un concorso a cattedra universitaria in diritto amministrativo, con un numero di pubblicazioni nettamente inferiore a quelle di Tomei. Quest'ultimo, di fronte al torto subito, ha fatto e vinto il ricorso con sentenza del Consiglio di Stato, che (per la prima volta in questo genere di ricorsi) ha affermato il principio secondo cui “per pubblicazione debbono intendersi soltanto le pubblicazioni diffuse nell´ambito della comunità scientifica che il candidato può vantare all´atto della domanda… la monografia del dott. Napolitano “Servizi pubblici e rapporti di utenza” risulta prodotta in esemplare stampato in proprio dall´autore, onde la stessa difetta del requisito minimo per essere definita pubblicazione valutabile agli effetti del concorso de quo“.
E i giudici hanno aggiunto: “Tale lavoro ha costituito elemento decisivo per la valutazione del candidato, in quanto ritenuto dalla commissione, quello di maggior rilievo sul piano sia formale sia sostanziale, come si evince chiaramente dai giudizi formulati, onde la sua non ammissibilità impone, di necessità, la rinnovazione del giudizio di idoneità espresso nei suoi confronti“.
Tuttavia, l'originaria Commissione esaminatrice, investita nuovamente della valutazione, ha preferito “farsi decadere”. Una nuova Commissione, costituita nell´agosto 2005, è stata poi annullata più di un mese dopo. Solo dopo una diffida da parte di Tomei, a febbraio del 2006, la commissione è stata ricostituita e ha terminato i propri lavori nel giugno del 2006. Non essendosi presentata la candidata D´Orsogna, si è trattato di attribuire due posti fra i rimanenti candidati, cioè Napolitano e Tomei. Ancora una volta Tomei è stato bocciato, ancorché dovessero essere valutati titoli non considerati dalla prima commissione. E´ risultato idoneo invece Giulio Napolitano, nonostante il suo lavoro principale, quello sul quale la prima commissione aveva fatto leva per promuoverlo, non potesse essere più oggetto di valutazione secondo la sentenza del Consiglio di stato. E così, alla fine, vissero tutti felici e contenti!
Evviva la retorica! Evviva il nepotismo! Evviva l'Italia!
Omologazione, conformismo e libertà
L'omologazione è un processo sociale inevitabile, che coinvolge chiunque e al quale nessuno sfugge. E' un processo che aiuta gli individui a decodificare la realtà sociale in cui si muovono, semplificandola, e a ricondurla all'interno di schemi che ne permettono l'interpretazione rapida ed efficace, anche in chiave predittiva. E' il processo sociale grazie al quale una collettività concepisce e matura la propria identità, quella in cui i singoli individui che la compongono si riconoscono e si tramandano attraverso le generazioni. E' un processo che, a motivo della sua natura, può essere pericolosamente controllato e manipolato, da parte di chi può avere l'interesse a conformare e ad anestetizzare gli individui intorno a stili di vita e comportamenti acritici, di passiva accettazione dell'esistente.
Nasciamo meravigliosamente nudi e puri, privi di ogni consapevolezza di chi siamo e liberi di diventare tutto ciò che potremmo essere. Siamo un esaltante foglio bianco, da scarabocchiare con tutti i colori possibili, ma anche con uno solo: ogni cosa dipende da noi e noi possiamo davvero essere gli artefici del nostro destino. Armati dei nostri cinque sensi, peraltro ancora imperfetti, ci evolviamo in virtù degli stimoli che captiamo e delle suggestioni che ci provengono da coloro che si prendono cura di noi. Progressivamente, sviluppiamo una nostra capacità cognitiva e un'ansia di "perché" che ci rendono possibile estrapolare dal mondo la nostra originale visione di senso e l'emozione. Operiamo confronti continui e sempre più sofisticati, grazie ai quali diventiamo capaci di marcare il confine, rendendolo a noi evidente, tra noi e tutto ciò che è altro. Prendiamo coscienza di essere, attraverso un percorso straordinario, in cui, fin dall'inizio, possiamo soltanto intuirci e mai vederci. Elaboriamo la nostra coscienza e costruiamo l'ipotesi di noi stessi, arricchendola continuamente di nuovi dettagli, operando confronti e differenze tra ciò che immaginiamo del mondo e ciò che percepiamo. In quanto esseri relativi, che si pongono sempre in relazione a qualcosa o a qualcuno per comprendersi, apprendiamo per differenza e questo per confermare o meno l'idea che ci siamo fatti del mondo e di noi stessi.
Se un fenomeno si ripete in modo sistematico, lo metabolizziamo fino a renderlo prevedibile e, quindi, spiegabile, immaginabile anche quando il fenomeno non si manifesta ancora. Se un fenomeno si discosta in modo significativo dall'idea che ce ne eravamo fatti, abbiamo facoltà di rimettere in gioco il nostro sapere, per attribuire nuovo significato al significante. Non solo, siamo anche in grado di astrarre dai fenomeni immaginati e dagli "oggetti" interni alla nostra memoria, una nuova sapienza e nuovo senso, in un processo creativo che ci permette di viaggiare e di creare oltre i limiti immediati del sensibile. Possiamo, però, decidere di ignorare il divario cognitivo, per paura o per pigrizia, e barricarci nell’ignoranza, per difendere la nostra presunzione di certezza. Possiamo relegare i fenomeni dissonanti a qualcosa di inaccettabile, di inspiegabile, di misterioso, di cui essere magari superstiziosi o di cui avere timore. Faticosamente, comunque, giungiamo a coniare l'oggettività: una rappresentazione del mondo a tal punto stabile e ripetitiva, da non mettere mai in crisi la nostra coerenza cognitiva: la percezione che abbiamo delle cose e degli eventi, inequivocabilmente e senza eccezioni, conferma la nostra immaginazione, le nostre credenze.
E' da questa ricerca continua di corrispondenza, che deriviamo la struttura basilare per la costruzione delle nostre certezze, delle nostre verità. Nella nostra mente radichiamo un complesso sistema di mappe, con le quali possiamo muoverci, conoscere, riconoscere, distinguere, strutturare e destrutturare, in modo più o meno creativo, le nostre rappresentazioni del mondo. Tanto maggiore e tanto più libere saranno la nostre capacità di interagire e di interpretare il mondo, tanto più ricche e composite saranno le nostre mappe. Non soltanto: tanto più saremo consapevoli del processo relativo con cui siamo giunti al nostro momentaneo traguardo di sapienza, tanto più ci manterremo vigili per non cadere nella presunzione di essere giunti a mete di verità assolute.
Non siamo soli nel mondo. Interagiamo con altri individui che, come noi, affannosamente ricercano la loro verità, il senso e la consistenza del loro essere. Nei processi di scambio e di relazione con gli altri subiamo e produciamo interferenze continue, grazie alla condivisione di rappresentazioni simboliche ed emotive: la parola; lo sguardo; il tono della voce; la gestualità; l'esteriorità; il contesto, il momento e i modi con cui si realizzano lo scambio e la comunicazione. La coordinazione di questi fattori può generare l'intesa, la simpatia, l’autorevolezza, la stima, la fiducia, la com-passione, l'amore o determinare il loro esatto contrario. Può generare il mutuo riconoscimento dei traguardi cognitivi raggiunti, ma anche il loro reciproco e/o aprioristico rifiuto, la repulsione, il disprezzo e spingere sino all’aggressione dell’altro, pur di annullarne il pensiero. In funzione della nostra sensibilità e della nostra ansia di ricerca, abbiamo facoltà di aprire le nostre mappe agli altri, per arricchirle di nuovi elementi, elaborare e costruire un nuovo senso, una nuova oggettività, nuovi valori e verità nuove, oppure, per infarcirle di dubbi che liberino ulteriormente il nostro percorso di ricerca della conoscenza, verso orizzonti imprevedibili di nuova sapienza.
In questo percorso, che è di tipo sociale e, in quanto tale, estremamente complesso, poiché coinvolge una moltitudine di individui, ciascuno potrà assorbire e metabolizzare il punto di vista o l'esperienza dell’altro, ovvero rigettarli. Analogamente, ognuno potrà agire per diffondere la propria opinione, dimostrandone agli altri la coerenza formale e sostanziale. Tutto dipenderà dal modo in cui il singolo individuo parteciperà e si porrà nel processo di scambio della conoscenza e dalla trasparenza con cui questi opererà per dimostrare la validità dei dati e delle ipotesi che stanno alla base del suo esclusivo impianto cognitivo. Ma tutto dipenderà anche dal grado di autonomia e di "qualità" della conoscenza di cui dispongono gli individui e dal modo in cui il sistema sociale, entro il quale le relazioni si svolgono, assicura le libertà fondamentali di espressione, informazione, opinione e partecipazione.
Il confronto dialettico e la riduzione di ogni ed eventuale dissonanza cognitiva, anche a costo di manipolare e/o sopprimere le cause che la determinano, condurranno alla formazione di saperi stabilmente condivisi e omologanti, intorno ai quali si affermeranno identità collettive, forme di linguaggi e di aggregazione, valori e patrimoni di verità. Tanto maggiore sarà il consenso intorno a questo patrimonio, tanto più elevata la resistenza che il gruppo eserciterà di fronte ai tentativi di una sua revisione, anche soltanto parziale. Non soltanto nei sistemi apertamente autoritari, ma anche in quelli dichiaratamente democratici, i traguardi cognitivi raggiunti si cristallizzeranno intorno a presunzioni di verità assolute, pertanto indiscutibili, infallibili, e per difenderle, la ristretta elite di governo del gruppo opererà per dichiararne al più presto il carattere dogmatico. L’indottrinamento di massa, il controllo rigido dell’informazione, la censura, la limitazione della libertà individuale, in ogni sua forma, saranno le leve di un’azione estrema, a cui l’elite dominante potrà fare ricorso, per: affermare il principio del conformismo ideologico; limitare la capacità critica degli individui; contenere le naturali inclinazioni dell’individuo alla ricerca autonoma e al relativismo, bollati come un male; rendere tutti obbedienti agli schemi rigidi di una verità preconfezionata; garantire a se stesso il confort e i privilegi della propria rendita di posizione.
Dobbiamo, quindi, acquistare la piena consapevolezza di queste dinamiche, perché solo in questo modo saremo capaci di vigilare su noi stessi, sugli altri e limitare i possibili effetti negativi dell’omologazione e del conformismo. In quanto individui, animati da una potenziale ed inesauribile sete di conoscenza, dobbiamo agire perché all’interno dei gruppi sociali di nostro riferimento, si consolidi il valore cardine della libertà di critica e di opinione e il principio fondamentale della tolleranza e dell’ascolto di ogni punto di vista, soprattutto di quello avverso all’opinione dominante. Dobbiamo lottare affinché il processo di elaborazione della verità non sia mai preclusivo, aprioristicamente, delle possibili eccezioni ad essa, ma sia invece un percorso aperto e sempre attento al relativismo e alla falsificabilità di ogni nostra opinione. Dobbiamo impegnarci affinché chiunque possa avere accesso all’informazione e possa esprimere il consenso, come anche il proprio autonomo dissenso.
Nasciamo meravigliosamente nudi e puri, privi di ogni consapevolezza di chi siamo e liberi di diventare tutto ciò che potremmo essere.
Se un fenomeno si ripete in modo sistematico, lo metabolizziamo fino a renderlo prevedibile e, quindi, spiegabile, immaginabile anche quando il fenomeno non si manifesta ancora. Se un fenomeno si discosta in modo significativo dall'idea che ce ne eravamo fatti, abbiamo facoltà di rimettere in gioco il nostro sapere, per attribuire nuovo significato al significante. Non solo, siamo anche in grado di astrarre dai fenomeni immaginati e dagli "oggetti" interni alla nostra memoria, una nuova sapienza e nuovo senso, in un processo creativo che ci permette di viaggiare e di creare oltre i limiti immediati del sensibile. Possiamo, però, decidere di ignorare il divario cognitivo, per paura o per pigrizia, e barricarci nell’ignoranza, per difendere la nostra presunzione di certezza. Possiamo relegare i fenomeni dissonanti a qualcosa di inaccettabile, di inspiegabile, di misterioso, di cui essere magari superstiziosi o di cui avere timore. Faticosamente, comunque, giungiamo a coniare l'oggettività: una rappresentazione del mondo a tal punto stabile e ripetitiva, da non mettere mai in crisi la nostra coerenza cognitiva: la percezione che abbiamo delle cose e degli eventi, inequivocabilmente e senza eccezioni, conferma la nostra immaginazione, le nostre credenze.
E' da questa ricerca continua di corrispondenza, che deriviamo la struttura basilare per la costruzione delle nostre certezze, delle nostre verità. Nella nostra mente radichiamo un complesso sistema di mappe, con le quali possiamo muoverci, conoscere, riconoscere, distinguere, strutturare e destrutturare, in modo più o meno creativo, le nostre rappresentazioni del mondo. Tanto maggiore e tanto più libere saranno la nostre capacità di interagire e di interpretare il mondo, tanto più ricche e composite saranno le nostre mappe. Non soltanto: tanto più saremo consapevoli del processo relativo con cui siamo giunti al nostro momentaneo traguardo di sapienza, tanto più ci manterremo vigili per non cadere nella presunzione di essere giunti a mete di verità assolute.
Non siamo soli nel mondo. Interagiamo con altri individui che, come noi, affannosamente ricercano la loro verità, il senso e la consistenza del loro essere. Nei processi di scambio e di relazione con gli altri subiamo e produciamo interferenze continue, grazie alla condivisione di rappresentazioni simboliche ed emotive: la parola; lo sguardo; il tono della voce; la gestualità; l'esteriorità; il contesto, il momento e i modi con cui si realizzano lo scambio e la comunicazione. La coordinazione di questi fattori può generare l'intesa, la simpatia, l’autorevolezza, la stima, la fiducia, la com-passione, l'amore o determinare il loro esatto contrario.
In questo percorso, che è di tipo sociale e, in quanto tale, estremamente complesso, poiché coinvolge una moltitudine di individui, ciascuno potrà assorbire e metabolizzare il punto di vista o l'esperienza dell’altro, ovvero rigettarli. Analogamente, ognuno potrà agire per diffondere la propria opinione, dimostrandone agli altri la coerenza formale e sostanziale. Tutto dipenderà dal modo in cui il singolo individuo parteciperà e si porrà nel processo di scambio della conoscenza e dalla trasparenza con cui questi opererà per dimostrare la validità dei dati e delle ipotesi che stanno alla base del suo esclusivo impianto cognitivo. Ma tutto dipenderà anche dal grado di autonomia e di "qualità" della conoscenza di cui dispongono gli individui e dal modo in cui il sistema sociale, entro il quale le relazioni si svolgono, assicura le libertà fondamentali di espressione, informazione, opinione e partecipazione.
Il confronto dialettico e la riduzione di ogni ed eventuale dissonanza cognitiva, anche a costo di manipolare e/o sopprimere le cause che la determinano, condurranno alla formazione di saperi stabilmente condivisi e omologanti, intorno ai quali si affermeranno identità collettive, forme di linguaggi e di aggregazione, valori e patrimoni di verità. Tanto maggiore sarà il consenso intorno a questo patrimonio, tanto più elevata la resistenza che il gruppo eserciterà di fronte ai tentativi di una sua revisione, anche soltanto parziale. Non soltanto nei sistemi apertamente autoritari, ma anche in quelli dichiaratamente democratici, i traguardi cognitivi raggiunti si cristallizzeranno intorno a presunzioni di verità assolute, pertanto indiscutibili, infallibili, e per difenderle, la ristretta elite di governo del gruppo opererà per dichiararne al più presto il carattere dogmatico.
Dobbiamo, quindi, acquistare la piena consapevolezza di queste dinamiche, perché solo in questo modo saremo capaci di vigilare su noi stessi, sugli altri e limitare i possibili effetti negativi dell’omologazione e del conformismo. In quanto individui, animati da una potenziale ed inesauribile sete di conoscenza, dobbiamo agire perché all’interno dei gruppi sociali di nostro riferimento, si consolidi il valore cardine della libertà di critica e di opinione e il principio fondamentale della tolleranza e dell’ascolto di ogni punto di vista, soprattutto di quello avverso all’opinione dominante. Dobbiamo lottare affinché il processo di elaborazione della verità non sia mai preclusivo, aprioristicamente, delle possibili eccezioni ad essa, ma sia invece un percorso aperto e sempre attento al relativismo e alla falsificabilità di ogni nostra opinione. Dobbiamo impegnarci affinché chiunque possa avere accesso all’informazione e possa esprimere il consenso, come anche il proprio autonomo dissenso.
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